Perché l'immigrazione è diventata un grande problema interno
Gli arrivi di migranti sono in calo ma la gestione di chi è già arrivato è caotica e costosa. Rapporto Ispi-Cesvi
Roma. Mentre il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, dà battaglia sul controllo di coste e frontiere, minaccia il divieto degli sbarchi, e preme su Bruxelles per la redistribuzione dei rifugiati tra gli altri paesi dell’Unione europea, l’immigrazione in Italia è diventata un problema domestico.
Il rapporto “Migranti: la sfida dell’integrazione”, pubblicato ieri dal think tank Ispi di Milano e dalla onlus Cesvi, dà un consiglio strategico suggerendo ai decisori politici: investire in integrazione dei migranti presenti in Italia, accumulatisi negli anni, incentivandone l’impiego, anziché continuare a spendere in un’accoglienza che diventa assistenzialismo potenzialmente perpetuo a carico dello stato.
“Il minor numero di stranieri che giungono in Italia per vie irregolari permette di spostare l’attenzione verso quelli che sono già presenti sul territorio, chiedendosi come fare per integrarli ”, dice il rapporto. Investire in integrazione anziché spendere (male) in accoglienza è una scelta obbligata
Dal luglio 2017 gli sbarchi in Italia sono diminuiti di oltre l’80 per cento. A un anno di distanza questo ha prodotto al luglio 2018 un risparmio giornaliero in spesa pubblica, ovvero un costo mancato rispetto alle previsioni di arrivi simili agli anni precedenti, di un miliardo di euro circa. Nel caso il calo degli sbarchi continuasse allo stesso ritmo, la spesa per accoglienza diminuirebbe in modo esponenziale: stimabile, dal secondo anno in avanti, da un minimo di 1,1 miliardi di euro a un massimo di quasi 2,6 miliardi.
“Il minor numero di stranieri che giungono in Italia per vie irregolari permette di spostare l’attenzione verso quelli che sono già presenti sul territorio, chiedendosi come fare per integrarli al meglio”, afferma il rapporto firmato dai ricercatori Matteo Villa (Ispi), Valeria Emmi (Cesvi) ed Elena Corradi (Ispi).
In sei anni, dal 2011 al 2017, i costi riferiti all’accoglienza sono cresciuti da poco più di 300 milioni di euro nel 2011 a quasi 3 miliardi di euro nel 2017. Il 98 per cento dei costi sulla spesa pubblica totale non riguarda tanto la valutazione della domanda d’asilo quanto il periodo di permanenza di ciascun migrante nel sistema di accoglienza italiano. Il costo per migrante è pari a 13.308 euro in dodici mesi che è poi il tempo medio di permanenza nel sistema di accoglienza. Il costo giornaliero è suddiviso come si vede nel grafico a sinistra.
Se di recente c’è stato un calo degli arrivi, è altrettanto vero che negli ultimi cinque anni il numero di rifugiati e altri beneficiari di protezione internazionale è aumentato di 180.000 unità, e ci sono ancora circa 130.000 richiedenti asilo in attesa di una risposta. In più, dice il rapporto, molti dei richiedenti asilo che si vedono opporre un diniego alla loro richiesta non potranno essere rimpatriati e resteranno in Italia. Il sistema italiano di accoglienza e integrazione risulta inoltre, come noto, inefficiente sia per gestire i flussi sia per consentire una integrazione dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Prova ne sia che all’ultima fase dell’accoglienza dei rifugiati, ovvero il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), l’86 per cento dei richiedenti asilo non ci è nemmeno arrivato nel 2017. E il sistema Sprar, pur avendo quasi quintuplicato i posti a disposizione dal 2012 fino all’anno scorso, è comunque lontano “dall’offrire un numero sufficiente di posti rispetto alle richieste d’asilo”, dice il rapporto Ispi-Cesvi.
La figura in pagina a destra, tratta dal rapporto, indica la convenienza della spesa in integrazione. Una maggiore spesa in integrazione genera inizialmente uno choc negativo nell’economia, perché, aumentando la spesa pubblica, causa una maggiore pressione fiscale (o minori trasferimenti) nei confronti del resto della popolazione, che quindi spenderà meno. Dopo alcuni anni, in ciascuno scenario i costi raggiungono un picco. Ma in tutti casi – eccetto quello dello status quo, in cui le cose restano come stanno – il trend si inverte mano a mano che gli stranieri si integrano nel mercato del lavoro e pagano tasse e contributi, mentre si avvalgono in misura minore dei servizi di welfare nazionali.
In questo senso, il modello della Danimarca che dà molte garanzie ai richiedenti asilo li spinge allo stesso tempo a non entrare nel mercato del lavoro. E’ questo il grande errore che la Germania sta cercando di non ripetere incentivando l’impiego riducendo il sussidio in caso di rifiuto di offerte di lavoro.
Stante la difficoltà a procedere a rimpatri, il processo di integrazione non solo appare un percorso obbligato in Italia, ma non sarà né immediato né agevole. La più recente indagine sulla forza lavoro dell’Unione europea “Eu Labour Force Survey”, riportata nella ricerca Ispi-Cesvi e risalente al 2014, mostra che il tasso di occupazione dei migranti giunti nei paesi europei per motivi umanitari resta molto basso per molti anni dal loro arrivo in Europa. Nei primi cinque anni tocca appena il 26 per cento. Ci vogliono quindici anni perché il tasso di occupazione dei rifugiati tenda a convergere verso quello di chi migra per motivi di lavoro. I migranti non comunitari giunti in Europa per lavorare – che quindi hanno già un’offerta o un network che consente loro di inserirsi – hanno infatti un tasso di occupazione medio molto alto, del 79 per cento nei primi cinque anni dall’ingresso.
Le differenze dipendono, in parte, dal fatto che i rifugiati in arrivo dall’Africa attraverso la Libia perdono abilità lavorative e tempo di studio nei due anni di viaggio che si sobbarcano, e dunque soffrono un gap notevole rispetto alle richieste delle imprese. Al di là dei limiti legali, questo contribuisce a ridurre dalla propensione dei datori di lavoro a utilizzare i richiedenti asilo come manodopera. La via dell’integrazione è insomma lunga, ma passa dalle decisioni a casa nostra.