Matteo Salvini e Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

I padrini pentiti del populismo italiano

Salvatore Merlo

Rep, il Cav, Caselli, Di Pietro. Guida all’Italia della resipiscenza anti populista

Roma. Silvio Berlusconi si è lamentato della televisione populista e urlata, e allora ha avviato una rivoluzione stilistica nelle reti Mediaset, ha trasformato Rete 4, dopo venticinque anni di piazze sbraitanti e microfoni sbattuti sui denti del malcapitato, dopo due decenni di antipolitica e anticasta, strepiti e denunce di malaffare diffuso, “Striscia la notizia” e “Le Iene”, frizzi, lazzi e indignazione spacciata a peso. E forse succede qualcosa, un rovesciamento, perché note e accenti di contrizione sembrano levarsi qui e là, tra i grandi, antichi protagonisti di una stagione che fu, politica e televisiva, intellettuale e giornalistica, uomini che all’esito populista, grillino e salviniano, hanno forse inconsapevolmente contribuito, e che oggi si pentono più o meno esplicitamente, con maggiore o minore consapevolezza.

 

C’è per esempio Antonio Di Pietro che sembra inorridire per quello che succede al governo, e allora critica gli eccessi e i decreti “Spazza corrotti”, si fa intervistare da Repubblica e va in televisione manifestando scetticismo, ironia, distanza, e d’improvviso è come se tutto ciò su cui il vecchio pm di Mani pulite aveva planato senza pericolo – le manette, la politica intesa come malaffare – gli si profilasse davanti come un paesaggio irto, tempestoso, inquietante, che forse sarà costretto a ripercorrere palmo a palmo, ma da avversario. E insomma, così come Michele Santoro da mesi racconta con preoccupazione nelle sue poche interviste il meccanismo di delegittimazione dei partiti e delle istituzioni, lui che ha cantato i fasti della trattativa stato-mafia e della piazza arrabbiata, viene componendosi un collier d’inquieti e turbati, “a loro modo ciascuno padre o padrino dei demoni profondi del populismo sovranista”, dice il professor Giovanni Orsina. “Tutti elementi di un paese in cui non si sono mai sviluppati anticorpi veramente liberali”, aggiunge il professor Sergio Fabbrini.

 

Radici antiche, esiti imprevedibili, progetti e piani che sfuggono di mano. “L’Antonio Di Pietro che all’inizio degli anni Duemila insegue un borseggiatore a Milano, lo placca e lo fa arrestare – vi ricordate? – oggi ha il suo risvolto in Luigi Di Maio che annuncia: ‘Faccio giustizia io con le autostrade’”, dice infatti il professor Fabbrini. E dunque insieme, Di Pietro e Di Maio, l’uno prosecuzione dell’altro, “sintetizzano la cultura illiberale italiana”, dice il professore, “dove non ci sono equilibri, procedure, bilanciamenti, ma una semplificazione verticale che oggi allude all’autoritarismo. D’altra parte il populismo è sempre illiberale perché non accetta poteri bilanciati ed è insofferente nei confronti delle procedure”.

 

Così, sia Orsina sia Fabbrini, spiegano come Mani Pulite abbia contribuito a rafforzare una tara storica d’Italia, la fragile legittimità del suo sistema repubblicano. “Già negli anni del consolidamento, del dopoguerra, faceva parte dell’armamentario comunista sostenere che la politica fosse corrotta. Si parlava non a caso di ‘forchettoni democristiani’. Ma è con Mani pulite che si raggiunge l’apice dell’idea che la nostra sia una democrazia corrotta dalle radici”, spiega Fabbrini. “Ed è da allora che è nata una narrativa, una retorica, un professionismo dell’anticorruzione i cui principali attori sono stati dei magistrati, certo animati da buone intenzioni, che però si sono sentiti investiti da una missione, da un compito storico e morale esorbitante dalle loro funzioni, cioè quello di ripulire la società. E ovviamente questi magistrati hanno poi trovato un’alleanza con la stampa, con il giornalismo cartaceo e televisivo. Sono cresciuti professionisti dell’informazione, certo bravi e ben intenzionati, che tuttavia hanno contribuito anche loro a rafforzare l’idea che ci fosse una coincidenza tra lo stato e il malaffare”. E se lo stato è malaffare, allora prima o poi arriverà qualcuno che ne considererà legittimo e inevitabile l’abbattimento.

 

Tutto un intreccio, riprende Orsina, “cui hanno contribuito le televisioni del Cavaliere che per esempio cavalcarono Mani pulite. Basta ricordare cosa erano in quegli anni le trasmissioni di Funari. Un impasto imprendibile al quale ha partecipato una parte della grande borghesia italiana, e poi i giornalisti corrieristi, gli autori del libro ‘la Casta’, cioè Stella e Rizzo. Ma soprattutto a questa danza, a questi salti nei cerchi di fuoco, ha contribuito la cultura della sinistra, dei suoi grandi giornali come Repubblica, dei suoi tribuni televisivi come Santoro, ciascuno mosso dall’idea del paese corrotto, del paese sbagliato, della divisione manichea del mondo tra morali e immorali. Con la trasformazione della morale in un’arma politica. Quando per esempio Gianfranco Fini si candidò a sindaco di Roma nel 1993, Eugenio Scalfari scrisse un editoriale per delegittimarlo su base etica. Ovviamente poi succede che se non sei all’altezza di quelle categorie morali che tu stesso hai evocato, dopo un po’ quella roba travolge anche te. Cosa che puntualmente è accaduta”.

 

E dunque Berlusconi e la sinistra, tra i padrini pentiti e inconsapevoli del populismo. Ma anche i giornali borghesi e la magistratura che s’intesta un ruolo salvifico totale, di sanificazione nel marasma italiano “e di conseguenza a un certo punto tenta persino di giudicare la storia”, dice Fabbrini alludendo al processo Andreotti. “Tenta in sostanza di confermare l’idea che la storia d’Italia sia stata tutta una storia criminale”, precisa Orsina. Ed eccoci a Gian Carlo Caselli, il procuratore del processo Andreotti, l’erede di Falcone a Palermo, anche lui oggi un non-simpatizzante del governo sovranista, delle sue sgrammaticature, dei suoi eccessi, della sua prossemica intimidente, proprio come Berlusconi e Di Pietro, Scalfari e Santoro, come la borghesia imprenditoriale di Confindustria. “Franco De Felice nel 1989 pubblicò un articolo che s’intitolava ‘Il doppio stato’”, ricorda Orsina. “Caselli si muoveva in questa cornice, seguendo l’idea che in Italia ci sia una democrazia falsa con il grande vecchio che da dietro gestisce tutto. Era anche la retorica del Pds, basta rileggersi i discorsi di Achille Occhetto. Solo che dopo aver brandito quest’arma, o vinci e azzeri tutto, oppure la delegittimazione resta a germogliare”. E alla fine arrivano gli interpreti migliori, l’evoluzione deformata, cioè i Di Maio e i Toninelli, con il loro vasto, stupefacente fotoromanzo composto di complotti, poteri forti, pressioni evanescenti, lobby inafferrabili, loro che coltivano insofferenza per le procedure e per lo stato diritto, invocano giudizi sommari e soluzione spicce.

 

“Ma è con Salvini che in realtà questa Italia antipolitica trova un orizzonte ideologico preciso”, dice Fabbrini. “Di Maio esprime una narrazione, delle parole, degli umori. Salvini ha invece uno schema e dei ceti di riferimento. Ed è per questo che è lui il vero capo del governo. Con Salvini la massa informe dell’antipolitica trova finalmente un contenitore e una sua logica politica. Sicché i populisti di un tempo, come Di Pietro, non sanno più che fare. Non ci si ritrovano. Ma sono loro ad averci portati fin qui”. E quasi l’Italia sembra quel famoso film, com’è che s’intitolava? “Tre passi nel delirio”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.