Così il contratto Lega-M5s mostra i danni del vecchio meridionalismo

Redazione

Nel testo non ci sono accenni alla questione meridionale. Non è un'affermazione del nordismo leghista, ma dell'idea grillina, e non solo, che il Sud può essere aiutato solo con l'assistenzialismo

L’assenza di qualsiasi accenno alla questione meridionale nel “contratto” di governo stipulato da Lega e 5 stelle, a prima vista può sembrare una affermazione del nordismo leghista, ma in realtà è vero il contrario. Certo, Luigi Di Maio (guarda il video sotto) ha spiegato che, come scritto nel testo definitivo che è stato messo in votazione, “si è deciso di non individuare specifiche misure con il marchio 'Mezzogiorno', ma di orientare tutte le scelte politiche previste dal contratto a uno sviluppo economico omogeneo per il Paese colmando il gap tra Nord e Sud”. Ma, al di là delle spiegazioni ex post, sono i grillini, che hanno fatto man bassa di voti e di seggi al Sud che hanno insistito per concentrare solo sull’assistenzialismo del reddito di cittadinanza la risposta alle istanze meridionali. La loro vittoria elettorale cancella il meridionalismo classico, quello che sia nella versione cattolica da Ezio Vanoni a Pasquale Saraceno a Emilio Colombo, sia in quella comunista, da Emilio Sereni a Giorgio Amendola, puntava alla creazione di una classe operaia assunta da imprese di Stato, trascurando la questione della creazione o del sostegno all’imprenditorialità privata. Anche la Cassa del Mezzogiorno, che aveva come obiettivo originario la costruzione di infrastrutture, è stata poi piegata a questa visione industrialista e statalista, il cui vertice finanziario è crollato già da tempo con l’assorbimento del Banco di Napoli.

 

 

Il fallimento del meridionalismo tradizionale era in grado di esercitare un’attrazione fatale anche nei confronti delle posizioni liberaldemocratiche che, anche per effetto di un certo spirito giacobino, furono in sostanza assorbite dalla logica “programmatoria” come dimostra la parabola del meridionalismo di Ugo La Malfa. Oggi, constatato questo fallimento, bisognerebbe passare a un meridionalismo moderno, basato sulla promozione del terziario, dell’imprenditorialità diffusa, con una funzione pubblica concentrata sulle infrastrutture. Invece quello che prevale, e non solo nella nuova alleanza populista, è un generale rifiuto della responsabilità, una richiesta di pura assistenza statale, un riflusso delle classi dirigenti meridionali. Lasciar diffondere la Xylella per non voler tagliare gli ulivi infetti, rifiutare l’arrivo dell’oleodotto, combattere contro la riqualificazione dell’area Italsider di Bagnoli, investire in stipendi per improbabili guardie forestali e lasciar marcire il turismo, spendere meno della metà dei fondi europei disponibili, sono tutti fenomeni precedenti all’esito elettorale.

 

 

C’è una classe dirigente meridionale interessata a battersi per la modernità, l’efficienza, l’impresa e il mercato? Se c’è (e per fortuna anche se isolata e impaurita in qualche misura c’è) ora vede con chiarezza dove porta la mancata assunzione di responsabilità, l’illusione statalistica e anche l’illusione diffusa dal vecchio meridionalismo. Se se ne rende conto può fornire un servizio assai utile a sé stessa e al Paese aprendo un conflitto, prima di tutto di idee, contro il “contratto” populista ma non per tornare indietro.       

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