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Appunti definitivi sulla vexata quaestio meridionale. Girotondo fogliante

Maria Carla Sicilia

Assistenzialismo, reddito di cittadinanza, servizi inefficienti. Da dove può ripartire il sud per recuperare il divario con la parte ricca del paese? 

I confini dell'Italia sono stati rimarcati nelle urne durante le ultime elezioni politiche, quando i risultati elettorali hanno restituito l'immagine di un paese diviso tra la richiesta di nuove politiche assistenzialiste a sud e una minore pressione fiscale a nord. Movimento 5 stelle da una parte e Lega dall'altra rappresentano in maniera quasi speculare le due identità del paese che sembra muoversi lungo due direttrici e con velocità diverse. Qualche mese prima del voto, il 20 settembre 2017, sulle pagine del Foglio, il direttore generale della Banca d'Italia, Salvatore Rossi, aveva pubblicato una lunga riflessione sulle “vere questioni” legate al sud. 

Il Meridione, è la sintesi del suo pensiero, è gravato da gravi inefficienze dove i soldi non mancano mai. Per affamare l’assistenzialismo e fare emergere il buono che c’è serve coraggio. Secondo Rossi il meccanismo redistributivo fra le diverse aree del paese ha funzionato poco e male, a causa di una gestione dei servizi pubblici che, a parità di risorse finanziarie, è più peggiore al sud che al nord. Una tesi su cui si può essere d'accordo o dissentire, ma che all'indomani del voto risulta ancora più attuale. Per questo abbiamo chiesto a due sociologi e a due economisti di intervenire nel dibattito spiegandoci il proprio punto di vista.  

  


    

La debolezza del sud non è solo una causa, è anche un effetto

Franco Cassano* 

 

Salvatore Rossi sottolinea giustamente la responsabilità delle classi dirigenti meridionali, ma il divario tra il nord e il sud ha molti padri. Si dice: a sud c’è una drammatica debolezza del capitale sociale, di spirito imprenditoriale e senso civico. Ma questa debolezza non è solo una causa, è anche un effetto:
i responsabili sono tanti e non abitano solo a sud. C'è stato un passaggio storico importante: fino agli anni Settanta la questione meridionale era al centro del dibattito politico, poi è scomparsa, complice la visione secondo cui ogni intervento nel sud avrebbe un effetto parassitario. Intanto il territorio si è impoverito, gran parte della forza lavoro qualificata va via e molti giovani partono per non tornare. E’ una spirale perversa che moltiplica il divario e rischia di renderlo irreversibile. Oggi, dopo la stagione delle “primavere meridionali”, i sentimenti prevalenti sono l’impotenza e la depressione: la convinzione che si è fatta strada è che non ci siano strumenti per colmare il divario con le regioni più ricche e che non ci sia uno stato abbastanza forte per agire.

Questa frattura si è riversata nel voto, che ci ha restituito un'immagine dell'Italia divisa. Mentre il nord, più dinamico e convinto di sé, ha scelto il partito che ne esalta l’egoismo territoriale, il sud, intrappolato in una spirale depressiva, ha votato per il M5s. Una parte d'Italia ha scelto la riduzione degli oneri fiscali, l'altra la loro moltiplicazione. Il disagio sociale ha così esaltato la divaricazione tra i due emisferi, da un lato quello che si sente parte dell’Europa forte, dall’altro quello si sente risucchiato in una condizione periferica anche perché oggi il Mediterraneo offre uno scenario tutt’altro che unitario, dominato dalle contrastanti ambizioni dei paesi di quell’area. Come far uscire da questa impasse il paese? Non ho dubbi: tra lavoro e assistenza il lavoro deve avere la priorità, anche perché ogni forma di protezione sociale presuppone il lavoro e la produzione di ricchezza. Il Welfare anche da noi è arrivato dopo lo sviluppo, non prima. Occorre quindi allargare l’area del lavoro e sottrarre il sud al destino di un’area che vive solo di assistenza. Certo, la protezione sociale è indispensabile, perché la povertà ha reso drammatiche le condizioni di una parte rilevante della società. Ma le proporzioni del fenomeno e i possibili abusi rendono nel sud il reddito di cittadinanza uno strumento difficile da governare.

Servono quindi più fondi per il sud? La quantità è un indicatore povero, è il “come” si usano le risorse che è importante. Ciò che oggi manca veramente al Mezzogiorno, è la fiducia in se stesso, la convinzione di poter iniziare una storia. La politica migliore sarà quella capace di ridare al sud la voglia di pensare il futuro e di impedire agli altri di credere di poter fare a meno del sud.

  

 *Sociologo, ex deputato Pd e docente all'Università di Bari. E' autore di Il pensiero meridiano (Laterza)


  

La nuova narrazione identitaria del sud: il Movimento 5 stelle e l'assistenzialismo

  Emanuele Felice*

Il sud è la più grande area sottosviluppata dell'Europa occidentale, schematizzando credo siano tre i fattori di svantaggio rispetto al nord che pesano sul suo futuro: il capitale umano, il capitale sociale e la crisi demografica, aggravata dallo spopolamento dei giovani che indebolisce in particolare la fascia di età tra i 30 e i 40 anni. Si tratta di problemi strutturali solo in parte legati alla gestione delle risorse economiche, su cui è utile distinguere tra spesa ordinaria dello stato e fondi europei.

La spesa ordinaria per il sud è più bassa della media nazionale, ma raggiunge un importo superiore a quello che gli abitanti del meridione versano nelle casse pubbliche con le proprie tasse. Da questo punto di vista è dunque vero che il Mezzogiorno è sovvenzionato dallo stato, ma rispetto al nord il finanziamento pro capite per cittadino resta inferiore, scatenando polemiche da entrambe le parti. Inoltre la spesa pubblica destinata al sud, dall'inizio degli anni Duemila a oggi, è andata sempre diminuendo. Il governo Gentiloni ha provato a invertire la rotta riequilibrando la spesa, ma gli effetti della sua politica devono ancora prendere forma.

Diverso è il caso dei fondi europei, che altrove in Europa sono stati volano di sviluppo, ma non per le nostre regioni che non ne hanno evidentemente saputo intercettare le potenzialità. Una possibilità per ripartire può essere proprio questa. A tal riguardo uno spunto interessante viene dal caso dell'Agenzia per la coesione territoriale. Istituita durante il governo Letta, quando ministro per la Coesione territoriale era Carlo Triglia, l'Agenzia avrebbe dovuto occuparsi della programmazione strategica sui fondi europei, indirizzandoli alla riduzione dei maggiori costi di contesto che si riscontrano nel Mezzogiorno, dal capitale umano e sociale alle infrastrutture: realizzare quindi grandi opere per rendere il sud più attrattivo e non dare incentivi agli imprenditori per compensarli del deficit dei costi di contesto. Quando invece l'Agenzia ha iniziato il suo lavoro, durante il governo Renzi, si è trasformata in un organismo che si limita a effettuare un controllo contabile su quanto le regioni del sud chiedono all'Unione europea, segnando così il fallimento della sinistra riformista nel Mezzogiorno.

Il vuoto lasciato dalla sinistra negli ultimi anni ha pesato sul voto, insieme alla scelta di candidare una vecchia classe dirigente, portando così alla vittoria del M5s e delle loro proposte assistenzialiste. Il reddito di cittadinanza è una misura che funziona nei contesti in cui non c'è una disoccupazione troppo elevata: al sud finirebbe per aggravare i problemi anziché risolverli. Per combattere la povertà serve una visione riformista che sappia progettare interventi capaci di avere effetto sui tre fattori strutturali di cui parlavamo prima, occorre una sinistra che smetta di ignorare le sacche di povertà al sud e che recuperi una narrazione del meridione. Ciò che è successo con queste elezioni prova che il racconto di un sud emarginato dalla storia italiana, schierato contro le élite e contro la scientificità, ha trovato una sua narrazione identitaria nel Movimento 5 stelle.

  

*Economista, insegna Storia economica presso l'Università di Pescara. E' autore di Perché il Sud è rimasto indietro (Il Mulino)


         

Così l'appropriazione parassitaria del sud impoverisce il nord

Luca Ricolfi*

    

Le cifre che fornisce Salvatore Rossi, sono molto simili, a livello aggregato, a quelle calcolate da me ormai una decina di anni fa, quando pubblicai Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale (Guerini 2010). Ma più che di gestione non efficiente delle risorse economiche, che mi sembra un eufemismo, parlerei di appropriazione parassitaria, o spoliazione delle regioni del Nord da parte di quelle del Sud.

Anche se ci sono importanti differenze regionali, complessivamente i conti dell’Italia sono questi: il Centro è in equilibrio, perché riceve più o meno quel che produce, il Nord riceve molto meno di quel che produce, il Sud molto di più. La differenza è dell’ordine di grandezza indicato da Rossi, fra i 50 e i 70 miliardi di euro (4 punti di Pil): se non dovesse staccare un assegno di almeno 50 miliardi di euro all’anno alle regioni del Sud, il Nord sarebbe un’isola felice, una sorta di Svizzera sotto le Alpi.
Il guaio è che gli squilibri sono su ben tre fronti: il tasso di evasione, con le regioni del mezzogiorno che sono capaci di autoridursi le tasse molto meglio di quelle del Nord (Liguria esclusa); la spesa pubblica corrente per abitante; gli sprechi e la qualità dei servizi. La prova regina dell’inefficienza al sud è il numero di addetti per abitante: come è possibile che i servizi pubblici nel Mezzogiorno siano molto peggiori di quelli del Centro-Nord nonostante il numero di dipendenti pubblici per abitante sia maggiore?

I cittadini meridionali si sentono abbandonati, e tutto sommato hanno ragione. Mentre per il passato si può discutere (senza venirne a capo, peraltro), sulle cause degli squilibri, per quanto riguarda gli ultimi 10 anni, ovvero dalla crisi del 2007-2008, è evidente che c’è stata una colpevole disattenzione della politica: la povertà assoluta è di molto cresciuta nel Sud, e i governanti o hanno ignorato il problema, o hanno sparso ingiustificato ottimismo, senza politiche incisive. Da dove ripartire? Sconsiglierei di puntare sulla detassazione dei profitti, perché la detassazione funziona bene solo là dove le tasse si pagano, o comunque non si evadono troppo. Sconsiglierei anche di puntare su misure di reddito minimo che riducono l’offerta di lavoro. Una misura di reddito minimo seria dovrebbe poggiare su quattro pilastri:

  

a) fondarsi sulla povertà assoluta, e non sulla povertà relativa, o sul rischio di povertà;
b) non disincentivare la ricerca di lavoro con importi troppo generosi;
c) essere accompagnata da controlli severi sul lavoro nero;
d) tener conto del livello dei prezzi, che fa sì che un sussidio di 500 euro in una grande città del centro-nord pesi, come potere di acquisto, la metà di quel che può pesare in un piccolo comune del sud.

  

Nessuna delle misure proposte dai partiti e dalle coalizioni ha queste caratteristiche: l’unica proposta che va in questa direzione è quella dell’Istituto Bruno Leoni.

Fra le proposte per la crescita, ne indicherei due. Primo, asili nido per scongelare l’offerta di lavoro femminile. Secondo, decontribuzione totale non per tutti i neo assunti, ma per i posti di lavoro addizionali creati da imprese che aumentano l’occupazione con veri posti di lavoro, a tempo pieno o quasi-pieno (una proposta che come Fondazione David Hume abbiamo fatto 5 anni fa, e abbiamo battezzato “maxi job”). 

  

*Sociologo, insegna Analisi dei dati all’Università di Torino. E' autore di Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale (Guerini 2010)


      

Non è solo la qualità della gestione dei servizi a lasciare indietro il sud, contano anche le minori risorse disponibili

Gianfranco Viesti* 

  

L'articolo di Salvatore Rossi pubblicato su queste pagine lo scorso settembre solleva dubbi e perplessità sia considerando le modalità comunicative, sia i contenuti e le implicazioni che ne derivano. Per prima cosa una domanda nel merito della tesi esposta: è vero che non c'è carenza relativa di risorse finanziarie pubbliche al sud? Tutti i dati sembrano smentirlo. La spesa del settore pubblico allargato nel 2015 era pari a 15.801 euro procapite al centronord e a 12.222 euro nel mezzogiorno, cioè il 23 per cento di meno. Questo, al netto dei rilevantissimi interessi sul debito pubblico, che si concentrano al nord. A determinare lo scarto sono in primo luogo le "politiche sociali" (6.034 euro contro 4.472): una predilezione politica verso le pensioni lascia scoperti gli interventi su povertà, famiglia, minori e a risentirne sono servizi decisivi, dagli asili nido ai trasporti, alla sanità (dove la spesa è del 18 per cento inferiore). Il divario è abissale nella spesa per la cultura.

Dunque che al sud siano disponibili meno servizi, e spesso di qualità inferiore, per i cittadini e per le imprese è un dato di fatto noto. Il punto chiave è: perché? Certamente lo scarto dipende anche da un gestione delle risorse disponibili che è spesso di qualità inferiore. Riconoscere errori e mancanze è importantissimo per migliorare: spesso il sud è poi a macchia di leopardo (ce lo dicono i dati: nella scuola, nella sanità, nella raccolta dei rifiuti): sottolineare le differenze è cruciale. Ma, contrariamente a quanto sostenuto, non è solo questa la causa: nel determinare i minori servizi contano le minori risorse disponibili; così come conta la minore dotazione di infrastrutture e capitale pubblico: la qualità degli edifici scolastici, la rete ferroviaria, idrica, fognaria, e così via.

Vi è poi un altro dato, essenziale: con la crisi e l'austerità si è tagliata la spesa e si sono aumentate le imposte più al sud, come documentano molte analisi della Banca d'Italia; i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono scesi (2009-15) dell'8,1 per cento al sud e del 5,1 per cento al nord. E si stanno stabilendo, con il federalismo fiscale, regole tali per rendere le differenze nella disponibilità di servizi pubblici non minori ma sempre più intense.

Discutiamo quindi certamente senza “proclami basati sul sentito dire, quando non sui propri fantasmi personali”, come siamo opportunamente invitati a fare da Salvatore Rossi. Ma anche avendo ben chiare implicazioni e conseguenze più generali delle tesi che si argomentano; specie in un paese nel quale troppo spesso si perde di vista l’interesse nazionale e si soffia sulle contrapposizioni territoriali per le risorse comuni.

 

*Economista, insegna all'Università di Bari. E' autore di «Il Sud vive sulle spalle dell'Italia che produce». Falso! (Laterza) 


    

A cura di Maria Carla Sicilia