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Al Sud vittimismo assistenziale e rabbia autolesionistica concimano “l'Italia dei No”

Angelo Mellone*

Vade retro regressisti. La cultura ambientale diventa un ambientalismo incapacitante. E la difesa del territorio, campanilismo da bassa campagna elettorale

Una delle catastrofi della postideologia è che i conservatori sono diventati imbalsamatori e i progressisti sono diventati regressisti. E questa cosa al meridione – culla di retromarce più che di marce che sa essere meraviglioso incubatore di autolesionismo – è più evidente che altrove.

 

Partiamo da una visione: se mai qualcuno dovesse riuscire a calcolare il costo in miliardi di euro del famigerato matrimonio tra la cultura dei veti e la cara, solita “sindrome Nimby”, ne verrebbero fuori cifre per coprire chissà quante finanziarie e per coprire di vergogna i complici trans-ideologici, trans-partitici, trans-territoriali di quella che anni fa correttamente Francesco Zucchini ha definito “una Repubblica dei veti” fondata non sul lavoro ma sulla “difficoltà a promuovere il cambiamento delle politiche”.

 

Due giorni fa il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, è dovuto arrivare quasi a citofonare al sindaco di Taranto – dopo uno scambio di tweet in tema spartano che passerà alla storia – per provare a sbloccare una surreale situazione istituzionale italiana che ancora rischia di paralizzare il risanamento ambientale del colosso siderurgico tarantino, boccheggiante dal 2012 per fattori extraproduttivi, e mandare in fumo qualsiasi strategia di sviluppo.

 

Dietro a questi screzi, a volte pericolosissimi, possono esserci fattori politici, interessi economici, rendite territoriali, motivetti da campagna elettorale, tare culturali e, perché no, anche vanaglorie personali.

 

  

Quella che definisco da tempo la sindrome del portiere – ovvero, potremmo dire, la tendenza a stoppare, rallentare, vincolare, opporre, per il semplice gusto di farlo, per ignoranza o per dare un senso alla propria presenza nel mondo – è un virus che unisce l’Italia certamente più del tricolore. Dalla Tav al Tap, appunto. Dai sabotatori che continuano a giocare ai ribelli con le forze dell’ordine in Val di Susa, protetti da una strana cultura dell’omertà che accoglie dentro l’etichetta di “antagonisti” tutti coloro a cui è permesso di infrangere la legge senza pagarne le conseguenze, con o senza passamontagna, a quella sorta di insurrezione che uno strano miscuglio di sindaci e autorità varie ha scatenato per impedire a un gasdotto di sbarcare nel sottosuolo del Salento, come se un’opera pubblica – strategica e pulita – dovesse causare chissà quale moria di ulivi o ecatombe paesaggistica. Come chi si lamenta di morire di fame mentre butta a terra pane e pietanze perché altrimenti non potrebbe lamentarsi che sta morendo di fame, una sindrome infantile che possiamo perdonare a un neonato che scansa il piatto con le mani ma non a governatori, sindaci, istituzioni, comitati, associazioni che dovrebbero pensare a valorizzare i propri territori anziché deprimerli con la scusa di difenderli. Con la giustificazione che nulla si deve toccare. Con il conservatorismo – che venga issato da bandiere rossastre, talvolta, cambia poco – che per l’appunto si trasforma in imbalsamatorismo. Con il vecchio glorioso progressismo ridotto a un regressismo che, vedi il caso del Salento, scambia la pizzica, le discoteche di Gallipoli e un poco di promozione del cibo di strada per un reale volano di occupazione, quando anche uno studente di economia sa che il turismo, per quanto possa esplodere, riesce a coprire al massimo un quinto del pil di un territorio che non vuole spedire i suoi giovani altrove a cercare lavoro. E questo è per l’appunto, Tap o non Tap, il caso de lu Salentu nella sua fase storica di maggiore visibilità turistica e di una classifica del Sole 24 Ore che piazza la Lecce super cool e la sua provincia al 104esimo posto in Italia quanto a qualità della vita. Non essendosi realizzata la Tap, non dovrebbe essere colpa del gasdotto.

 

Prima di parlare di una provincia attigua al Salento vien da ammettere che, purtroppo, questo miscuglio di istinti retrosviluppisti proprio nel meridione trova un eccellente brodo di coltura. Una brodaglia, anzi, in cui si mischiano l’atavico senso di diffidenza per la novità, la superstizione, e quella tendenza a oscillare tra l’assuefazione e un ribellismo orbo di prospettive che dai tempi di Masaniello insegna che per ogni tentativo di riforma c’è sempre un’orda sanfedista dietro l’angolo pronta a soffocare tutto nel sangue, nel silenzio o nella paralisi.

 

Da meridionale, sostengo questo da tempo con la morte nel cuore e la rabbia in gola. Negli ultimi anni, poi, il successo di materiali alla Pino Aprile ha rispalancato le porte a quella sindrome vittimistica che al sud utilizziamo per spiegare prima a noi stessi che agli altri che il sottosviluppo meridionale e i tassi penosi di capitale sociale non sono colpa nostra ma dell’invasore piemontese, che la latitanza della cultura civica non è un’eredità del peggior feudalesimo ma una conseguenza dell’unificazione italiana, e così via.

 

E si dirà: che c’entra tutto questo con la viralizzazione della cultura anti-industriale, anti-sviluppista soprattutto al sud?

 

Purtroppo la risposta è agevole: perché il vittimismo mette nella condizione la vittima presunta di chiedere un risarcimento. Se io sono stato colonizzato e sfruttato dal nordico cattivo, allora lo Stato ha il dovere di risarcirmi senza che io debba fare assolutamente niente. Una nuova versione dell’assistenzialismo, insomma, con buona pace dello Svimez e dei dati sciagurati e sanguinanti che ogni anno diffonde e che gridano vendetta.

 

E’ esattamente quello che da anni accade a Taranto, una città singolare nella sua storia perché, dall’unità d’Italia in poi, è divenuta la più grande città industriale del Centrosud non per merito proprio e della propria classe imprenditoriale ma una sequela di decisioni statali che hanno impiantato sui due mari la marina militare, l’industria di guerra, la navalmeccanica militare e civile e, nel secondo dopoguerra, la siderurgia con l’Italsider e un poderoso sistema di indotto che hanno reso Taranto l’unico caso di città meridionale di immigrazione e non di emigrazione e, nei primi anni Settanta, hanno realizzato il miracolo di un reddito pro capite superiore addirittura alla media nazionale, regalando a Taranto una centralità strategica totalmente esogena rispetto a una società locale immobile o scarsamente mobile e intraprendente, come il solito meridione. Molti di coloro che occupano le istituzioni substatali tendono a dimenticare anche questo quando spalleggiano o addirittura producono mentalità anti-industriale e rabbia autolesionistica. Quella mentalità e quella rabbia che, mentre ci si bea della retorica dello sviluppo turistico e delle alternative alla “monocultura dell’acciaio”, sono le stesse che hanno appoggiato o addirittura creato una comunicazione apocalittica che, stabilendo l’equazione assurda e insultante fra Taranto e l’inferno, i turisti li fa scappare anziché attrarli; quella mentalità e quella rabbia che, per dire, hanno fatto scappare da Taranto gli emissari del porto di Rotterdam, seriamente intenzionati a sfruttare le potenzialità inespresse della retroportualità tarantina per farne un hub di collegamento su rotaia con il Nord Europa. Ma come è stato detto: chi ce le fa fare di investire in un territorio che non vuole impresa e occupazione ma solamente prepensionamenti e assistenzialismo per tutti. E staremo a vedere come andrà a finire la vertenza Ilva, che rischia di divenire la pietra tombale di quella che quarant’anni fa ci si divertiva a definire “la Milano del sud”.

 

Parlo di Taranto non solo perché è una situazione che conosco meglio di altre ma perché davvero è un caso esemplare di come il tafazzismo e il retrosviluppismo, se ben miscelati, possano condannare a morte interi territori alzando bandiere identitarie quando, invece, l’unica identità è la disperazione. Padroni a casa nostra: sì, ma di niente. Di pietre arse di montagna e di acqua salata del mare. E stop. La cultura ambientale diventa un ambientalismo incapacitante. La difesa del territorio diventa un campanilismo da bassa campagna elettorale. La valorizzazione del radicamento diventa lo sradicamento del buon senso. La celebrazione dei giovani meridionali che hanno combattuto con la spedizione dei Mille e hanno fatto l’Italia diventa la celebrazione dei briganti che ai soldati italiani tagliavano le gole. Con buona pace dei Fortunato e dei Salvemini, il meridionalismo che oggi va di moda non è il loro. Anche la beffa delle bandiere borboniche si è dovuto sopportare. E vabbè.

 

Così, al meridione più che altrove, “L’Italia del No” sfodera sempre la stessa retorica: possiamo campare solo di turismo, green economy e non si capisce bene di altro cosa. L’importante è bloccare e impedire. Ma quando tu chiedi a un no-ista cosa vede nel futuro, quali sono le strategie di sviluppo alternativo – o peggio di alternativa allo sviluppo – che prospetta, quando tu gli fai notare che una nazione senza industria pesante, senza infrastrutture, senza power è una nazione senza futuro se non quello dell’essere camerieri e porto d’attracco per le nuove potenze, ecco che incominciano le parole fumose, le formule vacue, il niente che si solidifica in una gigantesca presa in giro le cui prime vittime sono i laureati, le giovani promesse, le menti migliori costrette a far fagotto e scappare velocemente ovunque li porti la fame di ricerca, successo, realizzazione. Così il gap tra chi parte e chi resta continua a espandersi, e così via, in una spirale di depauperamento di capitale sociale che fa dolore anche scriverne.

 

Taranto è un caso esemplare di come “l’Italia del No” abbia gioco facile, troppo facile, nel fagocitare qualsiasi spinta all’innovazione. Un caso paradigmatico di una storia industriale sbranata dal populismo della paura. La lotta, poi, è impari: una piccola minoranza urlante, che parte dall’ambientalismo catastrofista e arriva alle sinistre senza operai, passando per la frustrazione di ceti medi impoveriti e qualche giornalista alla ricerca di visibilità, che però ha la capacità di occupare la comunicazione attraverso la drammatizzazione dei problemi; un’altra minoranza, ancora più piccola, che vorrebbe rappresentare l’Italia del fare, del produrre, del costruire, del progettare, e che però viene schiacciata comunicativamente perché il buon senso non drammatizza e le sfide complesse non sono banalizzabili nel circuito mediatico; e in mezzo una maggioranza silente più che silenziosa, che aspetta alla finestra l’esito di una lotta sempre più impari poiché, mentre la minoranza populista s’ingrossa, quella produttiva continua a perdere pezzi e forza in ragione dell’emigrazione. In questo, la dicotomia destra-sinistra è saltata per aria da anni. E l’anti-industrialismo, e il No, e i veti, e i blocchi, e il vittimismo, e il neo-assistenzialismo, continuano a crescere, diventando cronaca e bollettino del decadimento di una terra, il meridione italiano, troppo bello per conoscere e rispettare la propria bellezza. E chi questa bellezza conosce, ama e difende, guarda tutto questo spreco con la morte nel cuore. E la rabbia in gola.

 

 

Angelo Mellone è autore della trilogia teatrale sul Mezzogiorno: “Addio al sud”, “Acciaio mare” e “Meridione a rotaia”

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