L'Aula del Senato (foto LaPresse)

Contro l'abolizione della democrazia rappresentativa

Claudio Cerasa

L’eversione spiegata a Lega e M5s (e Colle) con Luigi Einaudi

"L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". La ragione per cui siamo arrivati al punto di dover ricordare cosa prevede l’articolo 1 della Costituzione è che nel silenzio generale – o forse peggio: in un silenzio complice – la notte del 16 maggio del 2018 verrà ricordata come la notte in cui i due più importanti partiti italiani hanno trovato un accordo non solo per provare a formare un governo ma anche per colpire al cuore, in modo esplicito e trasparente, il più importante principio che governa una democrazia liberale. Sono poche righe, a pagina 23 del contratto: “Occorre introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo”. I partiti di protesta, da anni, provano a spacciare l’abolizione dell’articolo 67 – “ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” – come se fosse un passaggio indispensabile per combattere la Repubblica dei voltagabbana.

  

Quello che però in molti si sono dimenticati di ricordare nelle ultime ore è che il meccanismo previsto dall’articolo 67 non è finalizzato a incentivare il trasformismo ma è finalizzato a garantire la libertà di una democrazia e dei suoi eletti. Senza l’articolo 67 i deputati e i senatori potrebbero essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (violazione dell’articolo 68), non avrebbero strumenti per ribellarsi nel momento in cui l’interesse della nazione non dovesse più coincidente con quello del partito. Il divieto di vincolo di mandato venne non a caso introdotto nell’epoca post fascista, proprio per le ragioni che in Assemblea costituente vennero spiegate da un politico che, oggi, il nostro presidente della Repubblica sostiene di avere molto a cuore: Luigi Einaudi. “Credo – disse Einaudi l’11 febbraio 1946 – che tutti siano d’accordo nel ritenere che il mandato imperativo sia la morte dei Parlamenti. Il Parlamento si chiama così da parlare, e non solo perché si parla, ma anche perché si discute e si tenta di persuadere gli altri e anche perché ci sono uomini che sono volenterosi e pronti a essere persuasi, quando l’argomentazione altrui sia buona.

 

Il mandato imperativo contraddice a questa esigenza fondamentale dei Parlamenti e, quindi, è contrario a quelle che costituiscono le esigenze di una vita libera parlamentare propriamente detta”. E’ il principio chiave della democrazia rappresentativa: chi elegge, offre una delega per farsi rappresentare e una volta che si è scelto da chi farsi rappresentare chi è eletto ha la responsabilità di prendere le decisioni che ritiene giuste per tutelare gli interessi del paese. Chi ha a cuore i princìpi basilari della democrazia rappresentativa dovrebbe ricordare ogni giorno che mettere un deputato alle dipendenze di un capopartito – o, come succede nel Movimento 5 stelle, metterlo alle dipendenze del capo di una srl privata – significa non soltanto distruggere esplicitamente la democrazia per come la conosciamo oggi. Significa molto di più: creare le condizioni per non opporsi all’affermazione di un totalitarismo digitale (il passo successivo sarebbe lo stesso compiuto nel 1939 da Mussolini: abolire lo scrutinio segreto). Arrivati a questo punto non resta da chiedersi se l’einaudiano presidente della Repubblica possa accettare un contratto eversivo che scommette sulla fine della democrazia rappresentativa. Non solo sulla base di ciò che prevedono gli articoli 1, 67 e 68 della Costituzione. Ma anche sulla base di ciò che prevede l’articolo 93, in base al quale, come ha ricordato due giorni fa il deputato Riccardo Magi, il presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del presidente della Repubblica recitando una formula chiare. Poche parole: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della nazione”.

 

Interesse esclusivo della Nazione. Non sappiamo che effetti avranno le misure economiche promesse dalla Lega e dal M5s. Oggi sappiamo che il contratto pentalepenista punta ad aprire come una scatoletta di tonno non il Parlamento, ma la nostra democrazia. “Il mandato imperativo è la morte dei parlamentari”, diceva Einaudi. Forse, prima di accettare un piano eversivo, anche il nostro presidente avrebbe il dovere di ripartire da qui. Deputare significa delegare. E avere fiducia nella delega significa semplicemente fidarsi più della democrazia rappresentativa che di un maoismo digitale.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.