Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

Il valore aggiunto del Cav. incandidabile

Claudio Cerasa

Solo Berlusconi può ammettere di andare alle elezioni nella condizione naturale imposta dal proporzionale: senza candidato premier. Il caso Maroni ma non solo. Perché ogni petalo di governo del Cav. è un dolce schiaffo rivolto all’amico Salvini

In una campagna elettorale semplicemente incredibile – dove l’unica coalizione politica in grado di vincere le elezioni ieri è stata a un passo dal collasso a causa della improvvisa non candidatura di Roberto Maroni e il conseguente disorientamento di Matteo Salvini – esiste un formidabile paradosso che riguarda una figura della quale si parla molto ma la cui consistenza reale è simile a quella dei protagonisti delle favole. La figura in questione è quella del candidato premier e il dato curioso di questa campagna elettorale gioiosamente proporzionale, che ci consegnerà un Parlamento dominato più dal potere dei veti che dal potere dei voti, è che gli unici candidati premier del tutto credibili sono quelli che si presentano alle elezioni o senza essere candidati o senza essere candidabili. Alla prima categoria appartengono le molte riserve della repubblica che, per un eventuale posto nel governo, nella prossima legilsatura ambiscono a essere dei punti di mediazione più credibili rispetto ai front runner dei vari partiti ed è evidente che, per stessa ammissione del candidato premier del Pd Matteo Renzi, un Paolo Gentiloni, un Graziano Delrio, un Dario Franceschini, un Marco Minniti, in caso di un successo del centrosinistra o quantomeno di una non sconfitta, hanno più probabilità di finire a Palazzo Chigi di quante ne abbia il segretario del Pd. I non candidati premier che ambiscono a giocarsi una carta come possibili candidati premier sono infinitamente superiori rispetto ai candidati premier che tentano di utilizzare il proprio nome per raccogliere più voti possibili il prossimo 5 marzo (e la loro appetibilità di solito è inversamente proporzionale alla loro popolarità).

 

Ma se si va a osservare con attenzione il quadro politico offerto oggi dal centrodestra e dal centrosinistra c’è un dettaglio importante che non può sfuggire e che costituisce un punto di forza paradossale per la coalizione guidata da Berlusconi: l’incandidabilità del Cav. Può sembrare una forzatura ma in realtà la particolare condizione in cui si trova Berlusconi, non candidabile in virtù delle pene previste dalla legge Severino, rappresenta un clamoroso elemento di trasparenza per la coalizione di centrodestra. E se ci si pensa bene, in fondo, non esiste nessun altro partito che in campagna elettorale può ammettere in modo così genuino di andare alle elezioni nell’unica condizione naturale imposta da una legge proporzionale: ovverosia, senza candidato premier. Da un certo punto di vista, se si ragiona ancora, lo status particolare di Silvio Berlusconi – il cui cognome sarà sul simbolo della lista di Forza Italia non perché il Cav. è il “candidato presidente” di Forza Italia ma perché il Cav. è il “presidente” di Forza Italia – si trova alla base di una delle tante incompatibilità latenti tra il Cav. e Salvini. Mentre il leader della Lega non può dire di essere soltanto il front runner del suo partito (cosa che è) e non può ammettere di avere le stesse probabilità di Pietro Grasso di arrivare a Palazzo Chigi (cosa che è), il leader di Forza Italia, parlando del futuro possibile governo, può far intendere qualsiasi cosa, e non essendo candidabile può divertirsi a solleticare l’immaginazione dei suoi potenziali elettori aggiungendo ogni giorno un petalo alla rosa dei suoi ideali candidati premier. Un giorno è Sergio Marchionne, un giorno è Mario Draghi, un giorno è Antonio Tajani, un giorno è Franco Frattini, un giorno è Leonardo Gallitelli, un giorno è Carlo Calenda, un giorno è Gianni Letta, un giorno è Roberto Maroni (mancando ancora cinquantatré giorni alle elezioni c’è tempo per avere altri cinquantatré candidati premier).

 

Molti di questi nomi, evidentemente, sono del tutto improbabili ma ciascuno di questi nomi tirati fuori dal cilindro dal Cav. permette di ricordare agli elettori una verità che il principale alleato del Cav. non può ammettere: quale che sia il risultato delle prossime elezioni, essendo necessaria una mediazione per formare un governo, nessuno dei candidati premier che si candidano a guidare il paese finirà a Palazzo Chigi, compreso il caro amico Salvini. E qui vale la pena tornare un attimo sull’uomo della settimana, ovvero Roberto Maroni. Pressato da Matteo Salvini, che non può accettare che qualcuno lasci intendere che ci sia un leghista che abbia più possibilità di lui di finire a Palazzo Chigi, ieri Berlusconi ha dovuto smentire quello che non si può ovviamente smentire (le smentite di Berlusconi sono un genere letterario a parte, chiedere ad Alessandro Nesta), dicendo che per il governatore uscente della Lombardia “è impensabile che si possano pensare dei ruoli politici e tantomeno dei ruoli nel futuro governo”.

 

Eppure, comunque la si voglia mettere, la naturale trasformazione di Maroni in una riserva della repubblica del centrodestra è un danno per Salvini perché rischia di avere almeno due conseguenze. Primo: dimostrare che nella Lega esistono riserve della repubblica più credibili di Salvini (e che non dispiacciono neppure fuori dal perimetro del centrodestra, e questo dato potrebbe tornare utile dopo il 4 marzo). Secondo: dimostrare che i migliori prodotti della Lega sono indipendenti dal nuovo volto della Lega (“Ho fatto”, ha detto ieri Maroni, “cose straordinarie nella mia carriera politica grazie a Bossi e Berlusconi. Ora sono a disposizione del centrodestra per quello che serve, per la campagna elettorale”). Difficile dire se tutto questo coinciderà con una volontà che esiste nella testa di Maroni, ovvero fare campagna per il centrodestra ma non per la poco amata (eufemismo) Lega di Salvini. Facile dire però che tutto questo può aiutare ancora di più il centrodestra ad avere in campagna elettorale una caratteristica che i suoi avversari non hanno: poter dare agli elettori la libertà di credere che il candidato premier del centrodestra sia quello che ciascuno desidera (e che di sicuro non si chiama Salvini). Di questi tempi potrebbe essere un vantaggio mica male.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.