Roberto Maroni (foto LaPresse)

Il paso doble di Maroni il sornione e la Lega ri-costituzionalizzata

Maurizio Crippa

La rinuncia alla Lombardia con vista su Palazzo Chigi ha due varianti, o forse tre. Ipotesi politiche e costi umani

Milano. E se Bobo Maroni fosse un Formigoni che ce l’ha fatta? Un governatore un po’ stufo della laboriosa poltrona di Palazzo Lombardia, e del cielo di Milano, che è riuscito a dire basta. Ma avendo, lui, il Cavaliere dalla sua parte. Mentre il Celeste sbatté contro l’indisponibilità del leader di Forza Italia ad affidargli un ruolo importante a Roma, e l’interesse degli alleati a tenerlo lì un altro giro. Andò come andò. Bobo Maroni ha spesso detto, di recente, in pubblico, di non avere nostalgia di Roma. Ma lui non è Luca Zaia, a cui Roma non è davvero mai piaciuta. Maroni a Roma ha fatto tre volte il ministro, due volte al Viminale, e nella morbidezza bizantina della politica non si trova male. Il tratto personale non è da sottovalutare, nelle scelte “personali” del governatore uscente della Lombardia, il leghista sornione. “Economicamente ci perderò”, disse quando arrivò in Parlamento per la prima volta, nel 1992. “Posso guadagnare di più senza le responsabilità ricoperte finora”, ha detto domenica, annunciando il passo indietro. Un non dire e un alludere, un giocare tra passione e disinteresse che è nelle sue corde: lui la politica l’ha sempre amata e la Lega è la sua vita, ma in quel suo modo bilanciato, da amateur, più istituzionale che militante.

 

Poi, evidentemente, c’è la politica. Tanta. Roberto Maroni ha confermato lunedì che non si ricandiderà alla presidenza lombarda “per motivi personali”. Ha indicato l’ex sindaco di Varese, Attilio Fontana – altro avvocato, altro buon leghista di governo dalle capacità dialoganti – come suo successore. L’annuncio ufficiale sembrava cosa fatta, ma è slittato a oggi. Ma è difficile che Forza Italia neghi alla Lega il diritto di prelazione proprio nel momento in cui il sornione in chief, Silvio Berlusconi, dà il via libera per l’eventuale premiership al maggior rivale interno di Matteo Salvini. Il quale per ora fa buon viso: “Ho detto a Salvini che questa mia decisione non ha nulla a che fare con la politica”. Che voglia trasferirsi in riva a un lago, va da sé che è una delle bugie della politica che gli piace dire e insieme smentire. “Io premier? Berlusconi non l’ha detto. Magari l’ha pensato…”, ammiccava lunedì. Dunque si candida, si candida. A che cosa? “Sono a disposizione se dovesse servire. So che cosa vuol dire governare, assumersi responsabilità di governo. Ho solo una preoccupazione: che arrivi Di Maio. Per usare una espressione colorita, per me Di Maio è la Raggi al cubo. Se dovesse andare lui a Palazzo Chigi il rischio è che l’Italia finisca come Spelacchio. Spero che questo non avvenga e quindi riconfermando la decisione che ho preso, metto a disposizione la mia esperienza”. Per il bene del paese, insomma. Non per altro. Questo appurato, c’è una serie di precondizioni perché la non candidatura-candidatura di Maroni abbia successo: cioè che lui faccia il premier. Ci vuole che il centrodestra vinca bene (ma gli ultimi sondaggi dicono 36 stabile loro, contro 28 e 28 di Pd e M5s. Non è sufficiente). 

 

Ovviamente per conseguire il risultato occorre anche trovare (davvero) la quadra sul programma: flat tax, Fornero, e sui collegi. Inoltre serve che FI vinca, e bene, all’interno del centrodestra. In questo caso “il candidato premier” Salvini con tanto di nome sulla scheda sarebbe archiviato, e Maroni sarebbe uno dei candidati più proponibili del centrodestra. La seconda opzione è quella grande coalizione, con tutte le gambe che Mattarella riuscirà a mettere in piedi. Maroni sarebbe in quel caso spendibile? Sarà la domanda-romanzo delle prossime settimane. In ogni caso, solo se il centrodestra prendesse più voti del Pd. Ma a quel punto, a quel punto, ci sarebbe la resa dei conti. E’ improbabile che Salvini (e la Meloni) entrerebbe in un governo di larghe intese e persino l’appoggio esterno sarebbe una sconfessione di se stessi. Ma la Lega che si spacca, è un’idea molto complicata. Anche se piacerebbe a molti, dividere la Lega populista da quella di governo. L’ipotesi mette però capo a un’altra questione spinosa, e che non si può fare a meno di considerare: perché è politica. Rimetterebbe Maroni nell’antica condizione del traditore. L’accusa contro cui dovette lottare quando, nel 1994, fu tentato di non seguire il Bossi che disse “mi assumo la responsabilità di togliere la fiducia al governo Berlusconi”. Maroni voleva rimanere nel governo, ed è chiaro che avesse ragione lui, ma il sospetto di eccessiva intelligenza con l’alleato-nemico Cavaliere per lui è rimasto. Il rapporto è ottimo tuttora, si sa. Essere più uomo di istituzioni che di partito, costa. Ai tempi Bossi tuonò: “A Bobo ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato”. Oggi Salvini è saggiamente più prudente. Anche perché Maroni non è un traditore, la fedeltà è un tabù tribale nella Lega (lui preferisce dirsi leninista: “Il partito è il partito, il segretario pure. Le decisioni che Salvini ha preso possono essere discutibili e sono discusse, ma io le accetto. Tutte le decisioni del mio segretario io le accetto e le condivido per principio. Questo partito ha una lunga storia e tradizione da questo punto di vista. Salvini premier è una prospettiva che io condivido”).

 

Ma se Maroni, in uno dei vari scenari post atomici del 5 marzo, la spuntasse tenendo insieme tutto, la Lega e pure le quarte gambette, la faccenda avrebbe un’altra caratteristica cruciale: Berlusconi sarebbe riuscito a ri-costituzionalizzare la Lega, come già accadde nel ’94. Sarebbe un’altra volta un colpo da maestro del Cav. E Salvini, dice sempre il capo di Forza Italia, è uno con cui alla fine si trova l’accordo. Potrebbe anche andare tutto male, per Bobo, è chiaro. Scambiare la poltrona di Lombardia per una non da premier ma da ministro, per uno che dice spesso “ho già dato”, sarebbe poco. E presidente del Senato, per un ex “barbaro sognante”, chissà.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"