Stefano Parisi (foto LaPresse)

Stefano Parisi, il rifondatore mascherato

Marianna Rizzini
Chi è l’uomo “vecchio-nuovo” che ha quasi-vinto Milano ed è uscito da Arcore con l’investitura a riformare il centrodestra senza dare troppo nell’occhio. Una decisione che però ha anche sollevato diversi dubbi nel centrodestra.

“…Ma cos’é la destra cos’è la sinistra / Ma cos’é la destra cos’é la sinistra…”. Il fantasma di Giorgio Gaber s’è affacciato a Taormina, il weekend scorso, alla Summer School organizzata da Maurizio Lupi e dall’Ncd, quando Stefano Parisi – ex candidato sindaco di Milano per il centrodestra, ex manager nel settore privato, ex alto dirigente nel settore pubblico, già direttore generale di Confindustria, amministratore delegato Fastweb e antico apprendista nel mondo Cgil d’antan – se n’è uscito con la frase che ha fatto sobbalzare un bel po’ di gente. Precisamente, quelli che, sotto al Castello di Arcore o nelle vie traverse della Forza Italia e della Lega in subbuglio, già trasalivano all’idea di un Silvio Berlusconi intenzionato a risorgere per mezzo di un incarico ad personam a lui, l’Intruso: il Parisi che a Milano, se guardi la cosa al dritto, “ha quasi fatto il miracolo” contro Beppe Sala (versione degli amici), ma se la guardi a rovescio “ha quell’ingombro leggero della sconfitta” contro Beppe Sala (versione dei nemici). E dunque la frase dell’Intruso, gaberiana anzichenò (“io ho una storia di sinistra e ho fatto una campagna elettorale di centrodestra. Non sono sicuramente di destra, forse sono un po’ di sinistra, non so. La cosa di cui abbiamo bisogno ora è di una piattaforma alternativa a quella del centrosinistra”, ha detto Parisi), non è rimasta confinata al di là dello Stretto. Tempo due giorni, e quelle parole diventavano argomento di dibattito, scandito da quotidiani titoli del Corriere della Sera: “Berlusconi avanti su Parisi. Nuovo summit ad Arcore con i vertici del partito” (il 25 luglio); “Svolta ad Arcore, il sì di Parisi, poi un nuovo partito di moderati” (il 26 luglio). E al secondo titolo c’era già chi ci vedeva l’indizio di una futura, cordiale intesa Parisi-Cairo, dal cognome del vincitore della scalata a Rcs (nonché ad de “La7”).

 

Da Arcore usciva la road map: Parisi incoronato organizzatore-coordinatore-traghettatore verso un congresso d’autunno e soprattutto verso un soggetto unitario di centrodestra Lib-Pop (liberal-popolare). Ma da Arcore uscivano pure i dubbi e i mugugni, e restavano sospesi nell’aria i precedenti “nì” dei suddetti dirigenti di Forza Italia (“Parisi ha passione ma non è il momento”, aveva detto Renato Brunetta; “va bene Parisi ma i leader si fanno con i voti”, aveva detto Giovanni Toti). Restavano a fluttuare anche i “ni” di Matteo Salvini, che giorni prima aveva dato un tiepido “ok” a una convergenza sulle “idee” dell’Intruso ma anche un poco tiepido “stop” alla “passerella da leader del centrodestra” dell’Intruso medesimo, fresco di apparizione alla festa della Lega a Treviglio. E ora sono tutti lì a guardare dritto verso Parisi – che fa? cosa pensa? con chi s’accompagna? ha perso a Milano apposta per poter volare più alto? – e tutti lì a scrutare le possibili combinazioni d’ambienti tra Roma, Milano, Pescia Romana, Ansedonia, Gerusalemme, New York e Tel Aviv, i luoghi dove più s’è visto e si vede Parisi, padre di due figlie e da sempre sposato con Anita Friedman, discretissima esperta d’arte e instancabile volontaria (d’élite) della causa israeliana, da lei intesa come “corretta comunicazione” su Israele, motivo per cui spesso accompagna in Israele delegazioni di deputati e senatori. “Non è certo un’ossessa sionista”, dice un conoscente, “quanto piuttosto una convinta ma moderata sostenitrice di Israele presso parlamenti e ambienti culturali e universitari, con generosità d’impegno simile a quella di una Fiamma Nirenstein, sebbene espressa in maniera diversa”. Tra leggenda e verità, si narra dunque di uno Stefano Parisi che si reca in Israele più volte l’anno con la moglie, e di una signora Friedman che sui vari fronti interni, da “volontaria” osservatrice tra i soldati, racconta un amico, dà volentieri una mano senza troppi salamelecci: “Improvvisamente te la vedi che si mette a cucinare, pulire o a lucidare carri armati”, e a Tel Aviv “è capace di cenare con pacifisti intellettuali come con piloti di F16”. Ma che queste suggestioni possano illuminare di rimando la personalità e i possibili addentellati dell’ex candidato sindaco di Milano e nuovo traghettatore del centrodestra Stefano Parisi è presto per dirlo.

 


Certo è che Parisi, in qualche modo uomo di rottura, non è di rottura al punto da non avere amici trasversali (è molto apprezzato da Marco Tronchetti Provera, a lungo annoverato tra gli imprenditori “renziani”, e da Letizia Moratti, berlusconiana storica). E di sicuro Parisi è stato uomo di “sorpresa” in quel di Milano, dove in area-centrodestra, ma prima di lui, s’era candidato l’ex ministro montiano, ex banchiere e fondatore di Italia Unica Corrado Passera, poi ritiratosi. Oggi Passera dice al Foglio che Parisi “è un amico e una persona con grande esperienza manageriale e istituzionale, un uomo che ha avuto la saggezza di pensare a unire, e che si è riconosciuto nel programma liberal-popolare a cui stavo lavorando da tempo: per questo l’ho appoggiato nella corsa a sindaco e continuo ad appoggiarlo in vista della costruzione di un terzo polo e di un’alternativa a Beppe Grillo, da un lato, e al Partito della nazione, dall’altro, anche pensando a un ‘no’ costruttivo al referendum costituzionale”.

 


Stefano Parisi (foto LaPresse)


 

Ed ecco che il referendum d’ottobre, evocato, plana sul tavolo dei grandi interrogativi: da che parte sta davvero Parisi?, si domandano cronisti e parlamentari nel giorno in cui Parisi, che prima preferiva non esprimersi o sembrava tra le righe non distante dal “sì”, chiarisce invece la sua adesione al no. E il suo “no”, sommesso anche se imprescindibile (vista l’investitura di B.) diventa, nell’immaginazione di chi se lo figura animatore di un Patto del Nazareno-bis, il vestito nuovo del manager e grand commis Parisi. L’uomo che è stato scelto da B. come una specie di ultimo figlio putativo, ma anche, lungo una linea d’ispirazione d’area Mediaset-Letta (Fedele Confalonieri-Gina Nieri-Gianni Letta), come espressione di un berlusconismo neo-post aziendale: ecco di nuovo azzerato, da B. e in nome di Parisi, ciò che di politico si era sedimentato attorno al Castello di Arcore. Ed ecco il malumore che s’addensa attorno all’ex candidato che ha perso bene la lotteria (Milano) ma che – sogno di mezz’estate – può magari puntare al Super Enalotto.

 

Fuori dal Castello di Arcore, intanto, in alcuni ambienti vicini all’impresa, dice Aldo Bonomi, già vicepresidente della Confindustria di cui Parisi è stato direttore generale, “non ci si stupisce affatto di questo percorso: Parisi è imprenditore di se stesso”. E a Sergio Scalpelli, direttore delle Relazioni Istituzionali di Fastweb e amico di lunga data di Parisi fin dai tempi della Milano post-Tangentopoli in cui, come oggi, anche se per ragioni diverse, “si doveva ripartire dal liberalismo popolare”, Parisi pare “perfetto come leader del centrodestra, in un centrodestra che difetta di una certa intelligenza politica e poco sopporta alcune idee davvero riformatrici”. Scalpelli ricorda anche un altro Parisi, quello che nel pieno del cosiddetto “caso Fastweb” – caso giudiziario ma soprattutto mediatico poi sgonfiatosi in tribunale – si era presentato in pubblico “a testa alta”, e prima di fare il passo indietro che in seguito farà “per evitare il commissariamento dell’azienda”, ma “dicendo cose che non andavano in direzione dell’appeasement con le procure, anzi”. Parisi, ricorda Scalpelli, colpito da avviso di garanzia e poi del tutto scagionato, “sostenne allora una linea di attacco all’inchiesta” e di difesa della “reputazione dell’azienda”. Chi conosce l’uomo, dice che fu quello il momento in cui maturò la futura “determinazione” ma anche “leggerezza” di Parisi davanti ai media: non un caterpillar da talk-show, ma neanche un imbranato. Dopo quella conferenza-stampa, comunque, e prima della caduta tribunalizia delle accuse, si creò attorno a Parisi “un certo vuoto”, racconta un amico. Vuoto della discesa agli inferi nel paese delle intercettazioni e del “fine gogna mai”, ma vuoto non inoperoso in cui riprese quota il Parisi imprenditore (e fondatore della piattaforma di video on demand Chili tv), assieme al Parisi che in fondo aveva sempre avuto, seppure nella veste di alto funzionario, la passione per la politica.

 

E infatti, agli occhi di chi oggi, ad Arcore e fuori da Arcore, lo vorrebbe “federatore” e “rifondatore” del centrodestra e magari pure dell’intesa cordiale con Renzi, Parisi pare uno con la storia perfetta per il ruolo. Intanto è uomo che a destra, come dice lui stesso, viene gaberianamente da sinistra, con formazione socialista (come l’amico e consigliere Maurizio Sacconi), ma mai comunista (neppure al Liceo Righi di Roma negli anni in cui pochi erano socialisti e molti comunisti). Ed è uomo con esperienza nel sindacato, ma anche presso gli uffici che un certo sindacato ha considerato a un certo punto “nemici”: alla fine degli anni Novanta Parisi diventa city manager nella Milano di Gabriele Albertini, dove si occupa anche del “patto per il lavoro” pensato in collaborazione con il giuslavorista Marco Biagi, poi ucciso dalle Br (tema di fondo del Patto, la flessibilità sia sui contratti sia sul salario). “Parisi era quello che mediava”, racconta l’allora vicesindaco Riccardo De Corato. “Parisi”, dice al Foglio l’allora sindaco Albertini, “è stato protagonista, con grande correttezza ed eticità, di una stagione importante di riorganizzazione e ripensamento: ricordo i 500 milioni di utile per l’A.E.M. e le 10.000 persone che, tra assunzioni dirette ed indotto, hanno trovato un lavoro. In quegli anni, poi, si parlava di Milano come della città più cablata d’Europa. E’ stata una stagione in cui sono state messe in cantiere grandi opere pubbliche, senza che arrivasse un avviso di garanzia”. Perché però Parisi, l’ex city manager, abbia perso a Milano dopo essere arrivato così vicino alla vittoria, se lo chiedono in tanti: al primo turno era piaciuto anche in quartieri e ambienti non tradizionalmente moderati, pur non essendo un populista. Albertini dice che “non ha senso ora domandarsi se facendo dichiarazioni antigovernative Parisi avrebbe vinto: è rimasto fedele a se stesso e questo può pagare in prospettiva”.

 

Nella Milano di fine anni Novanta, dove Anita si trovò inizialmente malissimo (non c’erano ancora i Boschi Verticali, nella zona dove i coniugi Parisi andarono ad abitare, ma appartamenti un po’ fané), l’ex alto funzionario di Palazzo Chigi arriva ancora giovane, ma già esperto. Cioè dopo un decennio di lavoro come capo della segreteria tecnica al Ministero del Lavoro, alla vicepresidenza del Consiglio e alla segreteria tecnica di Gianni De Michelis, ministro degli Esteri. Cinque governi (Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi) e “una grande sfida”, dice Stefano Rolando, docente universitario e allora direttore generale e Capo Dipartimento Informazione ed Editoria alla Presidenza del Consiglio: “La sfida di far uscire davvero l’Italia dagli anni Novanta”. Parisi, racconta Rolando, aveva visto in azione agli Esteri “una squadra di veri negoziatori”, e aveva imparato ad argomentare “a livello alto” con colleghi di tutta Europa. “E aveva capito che, nella cosiddetta ‘nuova società dell’informazione’, bisognava portare la politica a fare il salto di qualità. Discutevamo di come si potesse fare impresa nel mondo dei media in evoluzione rapida, ma la politica sembrava non recepire”. I due si ritroveranno attorno ad altri tavoli simili a Milano, l’uno come city manager e l’altro come Direttore generale del Consiglio regionale lombardo: “Con Stefano ci vedevamo davanti al risotto e ci chiedevamo come si potesse portare la politica a stare sui temi del grande cambiamento in atto, ma ancora una volta quel laboratorio non sortì gli effetti sperati”. Fatto sta che, dopo gli anni in Comune a Milano, e molto prima di tornarci come candidato, Parisi lasciò i tavoli istituzionali per farsi manager.

 

E’ umbratile e schivo, “ma non timido”, dicono. E’ uomo vecchio? E’ uomo nuovo? Vuole davvero ridurre le tasse e la burocrazia, come diceva a Milano, e “dare profondità sociale a un programma liberale”, dice un osservatore, “come nell’idea originaria berlusconiana del ’94, contrapposta alla sinistra degli intellettuali”? E poi: questo Parisi può piacere ai giovani tentati dal grillismo? L’amica storica dei coniugi Parisi e docente universitaria Gabriella Pinnarò dice intanto che alla Sapienza, in questi giorni, alcuni studenti dichiaratamente di sinistra, in un focus group sulla politica italiana, si sono messi a discutere “del caso Parisi e dell’idea di una formazione lib-pop, incuriositi all’idea di un centrodestra privo di incrostazioni ideologiche”. E chissà se diventerà slogan, per Parisi – l’uomo che vuole rifondare la destra essendo nato a sinistra – il “che cos’è la destra-cos’è la sinistra” di Gaber. Intanto però ci sono i movimenti sotto al Castello di Arcore da contenere (se non domare). E lì, scherza un amico, “hai voglia a pedalare: Parisi è ciclista, ma si sa come va in questi casi: a volte pedali pedali, ti stanchi ti stanchi, ma la tua linea, seppur splendida, rischia di non essere mai all’altezza della fatica profusa per renderla tale”.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.