Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

“Sì, era meglio Berlusconi"

Salvatore Merlo
C’è in Italia, d’improvviso un sorprendente, per certi versi divertente, fenomeno revisionista nei confronti del Cavaliere, nemico archiviato e rivalutato, sostituito dalla figura di Renzi: dunque D’Alema, Landini, Travaglio, Di Maio… persino Luciano Canfora.

Le prime avvisaglie sono state caute, sommesse e furtive: “Renzi è per certi versi peggio di Berlusconi”, diceva Di Maio. Ma da tenue e smorzato il coro a mezza voce ha iniziato a diventare, a poco a poco, inequivocabilmente chiaro: “Silvio Berlusconi era meglio di Matteo Renzi”, ha detto a un certo punto Marco Travaglio. E insomma da brusio stropicciato, la cautela si è trasformata in scroscio (“eh, però quando c’era Berlusconi…”, ha detto Ferdinando Imposimato), poi addirittura in scoppiettio: “Berlusconi col sindacato ci parlava”, ha detto Landini. Fino al punto in cui non ci si meraviglia più di nulla, neanche di sentir cinguettare Di Battista (“gli italiani si stanno accorgendo che con Berlusconi era meglio”) e poi gorgogliare Santoro (“La Rai ha chiuso il dialogo con me, nemmeno Berlusconi arrivava a tanto”), fino al gran finale, che in un crescendo forsennato, attraverso il rombo e il clangore di Beppe Grillo (“Io preferisco Berlusconi, almeno lui combatte per le sue aziende”), arriva al maximum e all’optimum, cioè allo scampanio di Massimo D’Alema ieri sul Corriere: “La riforma costituzionale di Berlusconi era fatta meglio di quella di Renzi” (per inciso è la riforma che D’Alema affossò).

 

E poi: “Non c’era mai stata una pressione sui mezzi d’informazione così fastidiosa come quella che esercita questo governo. Nemmeno ai tempi di Berlusconi” (che ai tempi veniva da lui definito dittatore bulgaro). E davvero mai, in vent’anni, il Cavaliere dev’essersi sentito così coccolato, e quasi oggetto di un fenomeno, benché strumentale, di riabilitazione. Dicono che dalla sua stanza al San Raffaele, che presto lascerà per far ritorno ad Arcore, malgrado la sofferenza, guardando la televisione, e leggendo i giornali, un po’ si freghi le mani. Ma è neccessario un piccolo passo indietro. Venerdì 29 gennaio 2016. Entrato da pochi minuti nella redazione del Foglio per festeggiarne il ventennale, in piedi al centro del grande open space dove non aveva mai messo piede nei vent’anni precedenti, Silvio Berlusconi, a un certo punto, con la solita faccia di lupo fotogenico, stupì tutti, grafici e redattori, segretarie e personale amministrativo, pronunciando con negligenza sorridente all’incirca queste parole: “Non vi libererete di me”, “sarò l’argine a Beppe Grillo”, “i Matteo si logoreranno. E poi l’Italia mi riscoprirà”.

 

E certo, ai più, quelle parole, odorose di vittoria e di naftalina, suonarono come i lumi e le leggende d’un uomo refrattario al capriccioso comportamento delle percentuali elettorali, alle arbitrarie mattane dei numeri, insomma incapace d’accettare la tirannia del tempo che passa, con le sue minacciose lancette, un giocatore impossibilitato a piegare la testa di fronte al declinante consenso che inchiodava Forza Italia a un ruolo marginale, lontanissimo, alle spalle di Renzi, e persino gregario nei confronti della Lega. Poi però domenica scorsa sono arrivate le elezioni amministrative, la prima sconfitta di Renzi, a Roma e a Torino, il flop di Salvini a Milano e a Varese: le schiene che improvvisamente si raddrizzano, le sedie che si accostano, gli sguardi che si fanno più animati, i palati che vibrano, le ambizioni ormai sopite che d’un tratto si riaccendono tra gli sconfitti, tra i rottamati, nella sinistra, sulle colonne dei giornali, nella vecchia Lega e in Forza Italia, tra le poltroncine dei talk-show e in ogni corridoio laterale e sconfortato del Palazzo.

 

“I Matteo si consumeranno, si logoreranno e poi l’Italia mi riscoprirà”, diceva allora Berlusconi che, come certi animali, forse possiede un istinto formidabile per i cambiamenti atmosferici della politica, e per gli umori pazzi degli italiani, o forse ha soltanto quella sfacciata e taumaturgica fortuna che alcuni osservatori, tra il serio e il faceto, tra politologia e superstizione, in questi ultimi vent’anni hanno spesso definito, alludendo a quella parte del corpo che mai si cita sulle colonne di un quotidiano serio, come il fattore c…, a indicare appunto la dismisura della sua buona sorte. E poiché il caso è notoriamente capriccioso – si diverte cioè con le inverosimiglianze e con la surrealtà – dove l’apoteosi berlusconiana in questi giorni è totale, dove il trionfo va in carrozza, abbastanza da allietargli la faticosa degenza in ospedale, è tra i nemici della sua vita, sui giornali che al Cavaliere hanno fatto la guerra, tra coloro i quali coltivavano la filosofia della diversità antropologica.

 

C’è infatti in Italia, d’improvviso, tutto uno strano, singolare, sorprendente, per certi versi divertente fenomeno revisionista nei confronti del Cavaliere, nemico archiviato e rivalutato, sostituito – e nei medesimi termini di fissazione ossessiva (è difficile sottrarre ai fissati l’oggetto della loro fissazione, in particolare quando si costeggia l’ossessione o la psicopatologia spinta) – dalla figura di Renzi: dunque D’Alema, Landini, Travaglio, Di Maio… persino Luciano Canfora che, intervistato, ha spiegato come Berlusconi fosse decisamente più liberale di Renzi: “Oggi la Rai e giornali sono servi”. Ed è tutto un coro a mezza voce, a bocca storta, a occhi guardinghi, ma unanime e appassionato: “Berlusconi, bisogna dirlo, è stato più bravo di voi, è stato più rispettoso delle regole della democrazia rispetto a voi”, ha scandito in Parlamento un tale Airola, deputato dei Cinque stelle, “in questa riforma costituzionale non è passato un solo emendamento delle opposizioni”. E insomma la conversazione potrà magari cominciare dalle elezioni o dal prezzo della pasta, sfiorare la fiction di ieri sera su Sky, l’inflazione, l’articolo 18, il Jobs Act, la riforma costituzionale o il vaccino antinfluenzale e l’ultima ricetta di Carlo Cracco, ma presto o tardi arriverà al dunque: “Berlusconi era meglio”. Ritornano così alla mente i vaticini ribaldi e un po’ assurdi del Cavaliere: quando vi sarete convinti di avermi gettato dalla porta di strada, allora vi accorgerete che sono rientrato dalla finestra, a danzarvi davanti come un moscone. Eccolo lì, pare di vederlo.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.