La roboante Lega di Salvini: meno del 3 per cento a Roma, zeri e scarti al Sud, Forza Italia che prende il doppio dei suoi voti a Milano. “La proprietà dei numeri è la giustizia”, diceva Pitagora

Salvini who?

Salvatore Merlo
Trump, Pyongyang, le comunali. Il tentativo di agganciarsi a Grillo mostra l’inconsistenza del selfie salviniano. Differenze tra un leader e una simpatica patacca (e ora non fateci perdere più tempo).

Poiché sempre scambia i successi altrui con i propri, cioè crede d’essere anche lui sospinto dal medesimo vento della storia – e infatti s’imbuca in una foto con Donald Trump con la stessa aria felice e installata con la quale insegue Vladimir Putin a Mosca o Marine Le Pen a Parigi – adesso Matteo Salvini è tutto un caleidoscopio di bollori a Cinque Stelle, anima e felpa, corpo e ruspa: datemi Grillo! Voglio Grillo! “Bisogna votare Cinque stelle, sia a Roma sia a Torino”. E insomma si è accorto che quasi quasi i grillini vincono le amministrative, e la sua ambizione ha cominciato a palpitare in maniera addirittura udibile: cerca dunque di farsi un metaforico selfie con Di Maio e con Di Battista, con Raggi e con Appendino, con Davide Casaleggio e con Fico, e s’accontenterebbe persino di Vito Crimi, proprio come s’è già fatto un selfie (non metaforico) con lo xenofobo olandese Geert Wilders e con il suo collega austriaco Harald Vilimsky, e come se lo farebbe pure con i nazisti dell’Illinois, se appena avessero qualche voto, e se soltanto esistessero.

 

D’altra parte arriva sempre il momento in cui la patacca italiana assume le sue necessarie dimensioni internazionali, così non appena nel mondo compare un politico di successo, anche se un po’ strambo, in qualsiasi parte del globo esso si trovi, sia questo in Corea del Nord o tra gli indipendentisti della Scozia, tra gli antisemiti dell’Olanda o tra i razzistoidi del Belgio, appena spunta all’orizzonte un tipo forte, anche a Torino, a Roma, a Napoli, tra i forconi di Canicattì o nel labirinto dei Meetup di Modena, uno che pare ce la faccia, uno magari un po’ mattacchione (o mattoide), uno che vede scie chimiche o propone redditi di cittadinanza, ma che pure gli può dare lustro, ecco che allora Salviola, s’imbuca, e lo fa suo. O almeno ci prova. E spesso gli va pure bene, perché quello, il vincente, tra i tanti che gli chiedono un autografo e una foto, neanche si accorge della presenza di questo simpatico italiano dall’aria incongrua e dal cravattone verde, questo tizio un rien fissato, un tantino monomaniaco con i selfie, lui che intanto su Facebook ammicca agli amici del bar di Lambrate: “Guardate con chi sono, sono con Trump!”. Quasi mai capita infatti – è pressoché impossibile – che qualche giornalista riesca a chiedere al dittatore  coreano Kim Jong-Un, o a Putin, cosa esattamente sappiano o pensino loro di Salvini. Ma è purtroppo successo con Trump, che è stato intervistato da un giornalista dell’Hollywood reporter, Micheal Wolff. Ed è andata all’incirca così: “Salvini…Uhm…Salvini who? Francamente non so chi sia”. Ecco.

 


Donald Trump e Matteo Salvini (foto pubblicata su Twitter)


 

Ma, come si diceva, quello che è accaduto una volta con Trump, a Salvini purtroppo succede continuamente, e verrebbe da dire quotidianamente, con Grillo. Dunque lui dice “incontrerei volentieri Grillo”, e quello gli risponde: “Sei un ologramma venuto male, pussa via”. Lui allora, poveretto, dice che vuole votare Raggi e Appendino, e invece quello lo paragona a Brunetta: “Vi sembra un leader?”. E allora Salvini si mette disperatamente a parlare come Grillo, usa persino lo stesso frasario esagitato, insomma anche lui manda avanti le parole come cavalli selvaggi, si mantiene in uno stato d’eccitazione sentimentale e d’infiammazione uterina, pure lui s’impegna a respingere ogni sensibilità lessicale, qualsiasi tipo d’igiene mentale, di resistenza al fumo dogmatico, si spinge a dire che “nel Movimento 5 stelle c’è tanta passione”… e Grillo che fa?  Come lo ricambia? Così: “Sei vecchio, rappresenti un passato fermo e immobile, questi politici fanno schifo”. E l’insuccesso, la delusione amorosa, dev’essere frustrante, tormentosa, con risvolti patetici. “Come facciamo a collaborare, se mi insulta dalla mattina alla sera?”, si è chiesto, affranto, non troppo tempo fa.

 

Verrebbe spontaneo reagire nei suoi confronti con un minimo di compassione intellettuale, di fair play. Verrebbe. Ma “Salvini è l’uomo della situazione”, ha spiegato una volta Mario Borghezio. E volendogli fare un complimento, il suo collega di partito e d’eccessi, pennellava questa mimetica furbizia quasi con i tratti e i colori di un’avanguardia artistica del Novecento: cioè la sorprendente agilità situazionista d’uno che sa essere americano ma pure russo, mezzo nero e mezzo rosso, poi padano e meridionale, un po’ forcone siculo e un po’ trattore veneto, un po’ berlusconiano e un po’ grillino, l’unico politico insomma capace di occultare i suoi insuccessi elettorali piazzandosi sempre alle spalle o a fianco di un vincente, proprio come il famoso Paolini, il disturbatore della televisione, quello che grattava una notorietà riflessa nei pomeriggi di rete quattro, quello che Paolo Frajese prese a calci nel sedere, e che era trattato da Emilio Fede esattamente come oggi Grillo tratta Salvini: “Dategli un auricolare così gli dico io cos’è… levati da là, mentecatto”.

 

Il fatto è che il pellicciaio da sempre usa molte più pelli di volpe che pelli d’asino, e insomma l’astuzia procura qualche soddisfazione intellettuale ma anche grandi guai materiali. Basta osservare i risultati di questo primo, tremendo turno di elezioni amministrative che s’è appena concluso, per capire la mania delle foto, degli endorsement, e il tentativo di agganciarsi a Grillo. La roboante Lega di Salvini è marginale: meno del 3 per cento a Roma, zeri e scarti al Sud, Forza Italia che prende il doppio dei suoi voti in Lombardia, ottomila preferenze a Milano prese da Salvini contro le dodici mila di Mariastella Gelmini… I voti, le percentuali, i numeri. “La proprietà dei numeri è la giustizia”, diceva Pitagora. E questo spiega molto. Salvini tende infatti a compensare con la televisione e con le fotografie, e dunque sceglie Grillo, il cavallo vincente, un po’ per associarsi alla vittoria, e un perché ritiene di assomigliargli, malgrado quello lo respinga in malo modo.

 

La somiglianza è peraltro innegabile. Come maghi o stregoni, entrambi offrono un occultismo composto di pernacchie e vaffanculi, felpe e ruspe, democrazia diretta via internet e soluzioni semplici, come nel magico sabba medievale descritto nei libri di Carlo Ginzbur, cioè “un mondo alla rovescia cui si accede con invocazioni magiche che sono preghiere invertite”. E poiché forse i voti di Salvini andrebbero comunque a Grillo – e Salvini lo sa – allora tanto vale fargli anche un limpido attestato di simpatia (e chissà che quello poi non se lo porti a Londra dall’unico estremista che Salvini non ha ancora fotografato: Nigel Farrage). Ma tra sogno e realtà lo scarto è vertiginoso. E l’unica cosa di Salvini che Grillo non brutalizza e non respinge sono ovviamente i voti, si presenta anzi come l’estremista originale contrapposto all’estremista cialtrone e gonfiato dai talk-show, quei salottini dell’urlo e del rutto libero dove lui invece non va, con orgoglio d’urlatore monologhista: “Salvini a Bruxelles vota contro la redistribuzione dei profughi in Europa, li vuole tutti in Italia altrimenti finirebbe gli argomenti di cui parlare in televisione”. Indipendentista in Veneto, nazionalista a Roma, meridionalista in Sicilia, patriota sul Carso, repubblicano a Washington, comunista a Pyongyang, soltanto una sovreccitazione, un’instabilità dell’umore, o una furbizia spinta agli estremi limiti dell’autolesionismo potrebbero generare allo stesso tempo ipotesi di futuro e identità così diverse. E persino Grillo, lui che pure sembra un caso clinico del neurologo Oliver Sacks, persino lui se ne accorge, e infatti istintivamente, cioè in termini pre-razionali, diffida. E si tiene lontano.

 

“Salvini è un demagogo di cui dobbiamo tenere conto”, ha detto una volta Silvio Berlusconi, che lo incontra e lo capisce, che lo trova simpatico e furbo, persino utile, perché traffica con quei voti del malumore, oggi così popolari e à la page, che mancano al centrodestra per vincere, o almeno per farsi competitivo. E mai infatti Berlusconi lo ha considerato un avversario, un competitore per la leadership del centrodestra, “non ne ha nemmeno l’estetica”, “non si può moderare un immoderato”, “gli puoi anche mettere la cravatta al collo ma guarda il risultato”, confessò alcuni mesi fa a Roberto Maroni, che intanto annuiva sornione. Per loro Salvini è sempre stato un mezzo e mai un fine,  lo hanno sempre trattato con quella condiscendenza a volte indispettita con la quale si maneggiano gli inaffidabili, i bevitori forti, i picchiatelli: finché raccoglie voti è utile, poi si vedrà… L’unico forse a non essersi accorto di tutto questo è lui, Salvini, che inebriato dalla televisione che lo racconta nuovo leader della destra, a Roma, nel corso di una manifestazione a Piazza del popolo, fece srotolare uno striscione impietoso, che doveva significare il trionfo della Lega su Forza Italia, il suo trionfo storico e politico sul Cavaliere: “Berlusconi è politicamente morto”.

 


Silvio Berlusconi e Matteo Salvini nel 2015 (foto LaPresse)


 

Ma  Berlusconi non se la prese nemmeno quella volta. In tutti questi mesi Berlusconi ha seguito con gusto ciascuna delle comparsate di Salvini in giro per il mondo, tra Facebook e selfie, dall’uno all’altro mar. E persino tutti i tentativi malriusciti di abbracciare Grillo, e di farsi fotografare pure con lui. Certo qualche volta ha perso la pazienza, s’è impuntato, il Cavaliere ha ceduto al piacere di dargli una lezioncina, e allora gli ha candidato contro Alfio Marchini a Roma, facendo perdere Giorgia Meloni, e restituendo così ciascuno alla sua misura. Ma sempre con l’aria sorpresa, sorridente e un po’ ribalda, come di chi si trovi di fronte a uno scherzo della natura, a qualcosa di deforme ma pure delizioso, curioso, come il collo allungato di una giraffa o un frutto colorato che si apre tra le spine di un cactus. Per lui Salvini è soltanto un altro leaderino del serraglio, un’altra creatura dello zoo, di quella coalizione-bestiario in cui per vent’anni Berlusconi ha sempre candidato chiunque, comprese le imitazioni – anche nanometriche – di qualsiasi cosa, di qualsiasi partito, di qualsiasi cultura o incultura politica: un piccolo Mussolini, una piccola Dc, un piccolo partito liberale, un piccolo partito socialista, e perché non anche un piccolo Grillo leghista? Tutto dentro. Ma piccolo. E sempre manifesta un solo timore, il Cavaliere: cioè che Salvini in realtà non capisca la natura del gioco, e che insomma davvero lui confonda una foto con Trump con l’essere Trump, un buffetto a Virginia Raggi con l’aver vinto a Roma. Come Paolini al Tg4. E per questo, in fondo, forse lo considera un ingenuo.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.