Come nasce la supplenza dei pm nella fusione tra Confindustria Milano e Monza

Marco Alfieri
Meglio primi in un oscuro paese della Gallia o secondi a Roma? Lo psicodramma in corso a Monza si alimenta esattamente di questo antico dilemma, investendo il complicato rapporto con la vicina e ingombrante Milano, le poltrone, l’accesso a servizi terziari avanzati, fondamentali per fare impresa oggi.

Meglio primi in un oscuro paese della Gallia o secondi a Roma? Lo psicodramma in corso a Monza (che tanto paesino della Gallia non è con le sue formidabili piccole imprese, ma insomma…) si alimenta esattamente di questo antico dilemma, investendo il complicato rapporto con la vicina e ingombrante Milano, le poltrone dentro Confindustria, l’accesso a servizi terziari avanzati, fondamentali per fare impresa oggi, fino all’approdo ultimo in tribunale, stazione quasi inevitabile di tante, troppe querelle italiane.

 

La storia è questa: a partire dall’anno scorso il presidente di Confindustria Monza e Brianza, Andrea Dell’Orto, decide di sposare lo spirito della riforma Pesenti avviata in viale Dell’Astronomia per tentare di ridurre l’insostenibile barocchismo confindustriale, lanciandosi nel progetto di fusione con i cugini milanesi di Assolombarda, la più grande territoriale d’Italia, fortino di tanti sciur Brambilla.

 

In realtà Monza, per dimensione (ha quasi mille iscritti), non rientra tra le territoriali obbligate dalla Pesenti a fondersi. Però il ragionamento di Dell’Orto è duplice: alla fine del round di razionalizzazione resteremmo tra le più piccole associazioni, diventando residuali; se invece uniamo le forze con Milano daremmo vita ad una corazzata della rappresentanza (6 mila imprese associate), acquisiremmo più forza negoziale e accederemmo a funzioni che servono alle nostre imprese per darsi una dimensionalità diversa e andare nel mondo. Un esempio molto concreto: se arriva in Italia una delegazione cinese è più facile incontrarla a Milano che a Monza, giusto? Giusto. Però in Brianza non tutti gradiscono, anzi. La proposta di Dell’Orto a fine maggio passa per il rotto della cuffia in Giunta (con 3-4 voti di scarto) e con un plebiscito in Assemblea (anche se si registra un alto tasso di astensione). Alcuni lo accusano di giocarsi una partita personale sulla testa di tutto e tutti (nella nuova Assolombarda diventerebbe vice presidente con delega su tutto il manifatturiero, ndr). Soprattutto è la modalità dell’operazione a rinfocolare la fronda. Essendo molto diversa la taglia delle due territoriali (il rapporto è 5 a 1), l’unico modo per vararla è quella di una fusione per incorporazione. I puristi della “monzesità” dentro Confindustria insorgono e fanno ricorso alla magistratura (che intanto ordina la sospensiva): per approvare de facto uno scioglimento dell’associazione – è il ragionamento – serve la maggioranza dei tre quarti. Una controversia giuridica non banale che s’innesta su una psicologia diffusa e le fobie tipiche di queste terre laboriose: la paura di svendere al potente vicino (Milano) la propria autonomia, la propria anima e la propria peculiarità produttiva. La vicenda in estate si surriscalda. Litigi e minacce esondano sui media locali. Quattro dei 5 vice presidenti di Dell’Orto si dimettono. L’area del dissenso è radicata soprattutto tra i “piccoli” del legno arredo, epicentro Seregno. Dimenticandosi che quando la Brianza è diventata la “Brianza” agli occhi del mondo, grazie alla Fiera e poi al Salone del Mobile, quel miracolo di stile, talento e saper fare italiano nacque proprio dall’incontro di funzioni milanesi (design, architettura, capitali e istituzioni) con l’artigianato sapiente dei mobilieri brianzoli. Oggi si tratta di aggiornare quel connubio alla luce del mondo nuovo, fuori di ogni malcelato campanilismo. La palla adesso è in un’aula di giustizia (tanto per cambiare). Domani potrebbe esserci il pronunciamento del tribunale di Monza dovrebbe sulla sospensiva. Se venisse confermata addio fusione, nel senso che i mandati dei due presidenti registi dell’operazione (Dell’Orto e Rocca in Assolombarda) vanno a scadenza. Se venisse respinta invece si farebbe in tempi abbastanza rapidi. La vicenda di Monza però interessa per almeno altri tre aspetti.

 

[**Video_box_2**]Primo. Rischia di morire in culla una delle poche operazioni di razionalizzazione tra corpi intermedi, abituati troppo spesso a criticare l’immobilismo e gli sprechi della politica ma a razzolare malissimo quando si tratta di (auto)riformarsi. Secondo. Questo paese sembra incapace, anche in territori dinamici, di risolvere in casa le proprie diatribe (al netto di torti e ragioni). Deve sempre arrivare la magistratura a fare supplenza (come se non si prendesse già abbastanza spazio). Terzo. Su temi di area vasta come il lavoro, la mobilità, il welfare e l’impresa è difficile tirare una riga di confine tra una città come Milano, il suo hinterland e la Brianza del capitalismo diffuso. In una congiuntura in cui progetti come la città metropolitana languono in cerca d’autore, la fusione confindustriale rappresenterebbe una piccola svolta e costringerebbe anche la politica e il resto del sistema a fare la propria parte. Come la mettiamo?

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