Matteo Renzi e Giorgio Squinzi (foto LaPresse)

Dopo l'art. 18, il 19. Botta Renzi-Draghi

Marco Valerio Lo Prete
Squinzi fa coppia con Renzi e sfida gli “schiaffoni” dei sindacati su un altro tabù: la riforma della contrattazione aziendale. Il pressing del governo e le condizioni irripetibili per tentare il colpo (inflazione e Camusso debole).

Roma. L’onda lunga generata da Sergio Marchionne; un duplice “effetto Draghi”; le parti sociali mai così in subbuglio, ieri Giorgio Squinzi (Confindustria) ha definito “irrealistiche” le posizioni di un sindacato che da luglio “ci prende a schiaffoni”; infine una legge di Stabilità da far digerire all’occhiuta Bruxelles. E’ approfittando di questa situazione irripetibile – un po’ per scelta, un po’ per caso – che il governo Renzi in queste ore sta accelerando i piani per riformare radicalmente le relazioni industriali italiane. Come è successo con il Jobs Act e la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, o forse stavolta anche più a fondo. Privilegiando la contrattazione aziendale rispetto a quella nazionale. Non solo a parole. Dopo l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, a essere modificato potrebbe essere l’articolo 19. E poi, nel caso, altro ancora.

 

Ieri Roberto Mania, su Repubblica, descriveva un governo pronto a scrivere “le nuove regole della contrattazione, senza sindacati e Confindustria. Non era mai successo prima”. L’esecutivo a dire il vero un avvertimento lo aveva dato. Ancora una settimana fa Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, aveva detto: “Adesso siamo concentrati sulla legge di Stabilità, che terminerà il suo percorso parlamentare a fine anno. Una volta chiuso quel capitolo riporteremo l’attenzione sui contratti. Spero che nel frattempo le parti sociali abbiano trovato il modo di discutere e il coraggio di trovare una sintesi. Altrimenti saremo noi a fare il passo”. Ci sono svariate considerazioni di merito che consigliano di riformare la contrattazione avvicinandola quanto più possibile ai posti di lavoro e svincolandola dalle confederazioni sindacali o padronali che siano. Legare l’andamento delle retribuzioni all’andamento della produttività della singola azienda è ritenuta una delle chiavi di volta per guadagnare competitività, per esempio.

 

Qui subentra il duplice “effetto Draghi”. Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi –  fin dal 2011, dalla lettera scritta a quattro mani con l’allora presidente della Bce Jean-Claude Trichet e indirizzata al governo Berlusconi – non ha mai smesso di suggerire il superamento della rigidità italiana degli standard retributivi, verso l’alto e anche verso il basso. Lo ha enfatizzato Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd, in un recente convegno di LibertàEguale, parlando di necessaria “coerenza con la scelta del sistema monetario unico continentale” e della “necessità ineludibile (di applicare la contrattazione aziendale, in deroga o in sostituzione di quella nazionale, ndr) se nei periodi di vacche magre vogliamo evitare forti aumenti della disoccupazione e l’avvitarsi della crisi”. Draghi, dal 2011, ha sempre insistito su questo. Oggi però c’è un secondo “effetto Draghi” che milita a favore del cambiamento, ed è la bassa inflazione prolungata che secondo alcuni doveva essere sintomo di un aggiustamento strutturale in corso nei paesi periferici, e che adesso la stessa Bce si sta preoccupando di non vedere evolvere in deflazione conclamata. Cosa c’entra? Si prenda l’ultima nota pubblicata sabato dal Centro studi Confindustria. Qui si legge che “l’ultima tornata contrattuale ha determinato nel settore manifatturiero una crescita delle retribuzioni pari al 4,6 per cento nel triennio 2013-15, essendosi basata su previsioni di inflazione che si sono rivelate molto più alte di quella effettiva”. In conseguenza di ciò, “dagli inizi degli anni Duemila il sostenuto andamento delle retribuzioni ha spinto in alto la quota del valore aggiunto che va al lavoro, tanto che essa è tornata ai picchi storici di metà anni Settanta”. Con annessa perdita di competitività, lamentano gli industriali, che deve avere qualche forma di compensazione in queste settimane, mentre sono in negoziazione vari contratti di categoria (alimentaristi e chimici, poi metalmeccanici subito dopo per esempio). Chiedere i soldi indietro ai lavoratori, ovvio, non è il punto. Ma evitare di restare legati a un meccanismo obsoleto di previsioni dell’incremento dei prezzi è il minimo “sindacale” che molti associati di Confindustria esigono. Squinzi lo sa, e anche così si spiega la sua sempre più evidente evoluzione personale nel ruolo di leader di Viale dell’Astronomia. Qui il patron di Mapei era stato eletto presidente nel 2012, quando con il premier Enrico Letta la concertazione aveva avuto un flebile revival, era circondato dall’aura dell’industriale che come leader degli associati della chimica “siglava gli accordi direttamente con la Cgil, poi li inviava a Cisl, Uil e governo perché ne prendessero atto”, dice un insider. Così, nelle ultime settimane, perfino chi lo conosce da tempo è rimasto stupito da un irrigidimento dei toni usati in pubblico nei confronti della controparte sindacale. Toni critici, fino all’invito di due giorni fa a “smetterla con la pretattica” e a trovare un’intesa sui contratti aziendali. Perché ci sono gli associati che premono, certo, e dall’altra parte c’è il martello-Renzi. Che promette di andare avanti da solo, se le parti sociali non si accordano. Cosa ha da perdere Squinzi da un’eventuale accelerazione dell’esecutivo? Senza entrare in tecnicismi eccessivi, tra Parlamento e ministero dell’Economia si ragiona ad oggi su un intervento in due tempi. Una riscrittura dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori per cambiare in senso proporzionale il sistema di elezioni dei rappresentanti sindacali in azienda (r.s.a. o r.s.u.), depotenziando il monopolio dei sindacati confederali. Dopodichè, per evitare ogni forma di abuso, specie nelle aziende più piccole, una parte del Pd e dei giuslavoristi spinge per l’introduzione del salario minimo orario che renderebbe ufficialmente facoltativo ogni contratto nazionale. Confindustria e Cisl sono favorevoli alla prima ipotesi (anche se la sindacalista Anna Maria Furlan è ancora timida a sostenerlo in pubblico), ma radicalmente avversi alla seconda. Ieri Squinzi, dichiarando che “non ci sono più margini di trattativa con i sindacati”, ha auspicato che “il governo non combini danni”. Infatti il mix di contrattazione aziendale e salario minimo svuoterebbe di rilevanza i futuri pourparler romani tra Confindustria e triplice sindacale. A quel punto nuove fuoriuscite di associati  da Viale dell’Astronomia, in particolare, sarebbero da mettere in conto. E’ l’onda lunga dello strappo di Marchionne e della Fiat, che a fine 2011 riuscì a mettere su un contratto di primo livello alternativo a quello confederale anche grazie alle dimensioni del Lingotto. 

 

Aiutino per la legge di Stabilità

 

[**Video_box_2**]Ecco spiegato perché Squinzi teme il decisionismo renziano, e lo blandisce. A questo punto preferirebbe piuttosto un accordo molto avanzato sulla contrattazione aziendale, per disinnescare la mina “salario minimo”. Dall’altra parte però Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, non è mai stata così debole agli occhi dei suoi interlocutori. Con il presidente del Consiglio non si è mai presa, ma questo è il meno. L’attivismo di Maurizio Landini, segretario generale della Fiom-Cgil, è a tutto campo: sindacale, ma soprattutto politico e mediatico. Infine sia Squinzi sia Renzi sanno bene che, nel mondo sindacale, specie nel nord dove la ripresa economica è più forte, alcune categorie sindacali vedono con favore il superamento – in qualche forma – della contrattazione nazionale. Incardinando questo percorso con la benedizione di Draghi, anche il giudizio di Bruxelles sulla legge di Stabilità non potrebbe non mutare. Al Tesoro ne sono certi.