(foto Ansa)

Piccola posta

Non c'è falco israeliano che non s'imbatta in un ripensamento. Tranne uno

Adriano Sofri

Gli scrittori dicono che il paese ha perduto l’anima, nella suicida e omicida leadership moderna. I vecchi capi sentivano la precarità del rapporto con gli arabi. Quelli di oggi conoscono solo l'esercito di occupazione

Gli scrittori israeliani danno interviste desolate, in cui dicono alternamente che Israele ha perduto l’anima, o ha perduto la reputazione. E’ probabile che l’anima sia il miglior sinonimo della reputazione, e viceversa. Ambedue le espressioni lasciano intendere che la reputazione e l’anima perduta sono molto difficili, se non impossibili, da recuperare. Che cosa può succedere ancora che, se non salvare anima e reputazione, riduca almeno il danno e rallenti la corsa allo sbaraglio che ha ubriacato il governo israeliano? Un mio amico, uno che ha spinto il suo amore per Israele fino alla impossibile difesa di Netanyahu, mi dice che una volta tolto di mezzo Netanyahu gli altri faranno esattamente quello che sta facendo lui. Io dissento anche da questo, almeno per principio – l’ultima dea. Ma non ho alcuna speranza che compaia sull’orizzonte israeliano un uomo (o una donna) “nuovo”, capace di un pensiero e di un gesto spiazzante, che mostri semplicemente ragionevole ciò che oggi sembra scandalosamente o fatalmente impensabile. Mi piace, certo, una simile idea. E’ il bello di ogni messianismo. Peccato che non succeda. Nemmeno nel nostro piccolo, quando si evocava, e ci piaceva, l’avvento di un “papa straniero”. Non succede nemmeno col papa, da qualunque parte provenga.

Allora, da dove può venire una convalescenza? Penso che possa venire solo dagli uomini “vecchi”, da chi abbia sperimentato fino in fondo il vicolo cieco dell’oltranzismo e si ricreda: da un pentito, una pentita. Qualcuno che sia stato corresponsabile del disastro, e senta – non di non aver più niente da perdere, c’è ogni giorno di più qualcosa da perdere, e la cronaca lo mostra terribilmente – ma di non aver più niente da vincere. Vorrei saperne di più, ma a me pare che la storia di Israele sia onorevolmente lastricata di figure simili. Sono uomini, e tutti o quasi generali con una abbagliante carriera militare – e prima magari paramilitare se non “terroristica”. Avevano alle spalle la Guerra mondiale e le altre guerre vere e decisive, a cominciare da quella del 1948. Moshe Dayan già la guerriglia dell’Haganah e la Seconda guerra – perse là il suo occhio. Era proverbialmente spregiudicato e avventuriero, capo di Stato maggiore nella Seconda guerra arabo-israeliana, del 1956, che arrivò a Suez, ministro della Difesa nella Guerra dei sei giorni del 1967, di cui si vantò vincitore, oltranzista sui territori occupati, ancora a capo della Difesa nella guerra del Kippur, 1973. E poi, nel 1978, protagonista degli accordi di Camp David e della pace con l’Egitto, e fautore di negoziati coi palestinesi e del ritiro incondizionato dalla Cisgiordania e da Gaza. Fu lui ad affidare ai musulmani l’amministrazione della Spianata del Tempio.

Nel 1956, quando era lontanissimo da ogni transigenza e anzi impegnato a deridere il pacifismo, aveva pronunciato la famosa orazione funebre per l’ufficiale 21enne Roy Rotenberg, ucciso e mutilato in un agguato al confine con Gaza: “Non dedichiamoci oggi a incolpare i suoi assassini. Che cosa possiamo dire del loro odio terribile verso di noi? Da otto anni essi si trovano nei campi profughi di Gaza e hanno visto come, davanti ai loro occhi, noi abbiamo trasformato la loro terra e i loro villaggi, dove loro e i loro antenati abitavano in precedenza, facendoli diventare casa nostra”. Yitzhak Rabin ricevette il Nobel per la pace nel 1994, insieme a Peres e Arafat. Era stato da sempre un combattente e poi un militare di carriera, capo di stato maggiore e vero responsabile della vittoria nella Guerra dei sei giorni e ministro della Difesa. Nel 1948, nel governo di Ben Gurion, aveva fatto affondare a cannonate l’Altalena, la nave dell’Irgun di Begin e il suo carico di armi. Era primo ministro dal 1992, e quando patrocinò gli accordi di Oslo. Nel 1995 fu assassinato da Yigal Amir, un fanatico israeliano di estrema destra, che era contrario al processo di pace e lo considerava un traditore – Amir è l’eroe della destra religiosa nel governo attuale di Netanyahu. Nel suo ultimo discorso, prima d’essere colpito, Rabin aveva detto: “La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dice uno che è stato un militare per 27 anni”.

Lo stesso Begin ebbe una storia ambivalente. Ezer Weizmann, anche lui generale e più tardi presidente di Israele, cognato di Dayan, pilota, fu ministro della Difesa con Begin, per il quale aveva costruito il Likud, diffidente del negoziato con l’Egitto, fece amicizia con Sadat, divenne apertamente pacifista e ostile agli insediamenti in Cisgiordania, fece scandalo incontrando cordialmente Arafat contro Netanyahu, e ancora di più incontrando Hawatmeh.
La biografia di Ariel Sharon è la più nota. Comandante militare di spicco, responsabile di rappresaglie feroci, capo dell’avanzata oltre il Canale di Suez nel 1973 e contrario alla sua interruzione, ministro della Difesa al tempo di Sabra e Chatila, autore provocatorio nel 2000 della “passeggiata” sulla Spianata delle moschee, compiuta con un gran seguito di armati, che contribuì a scatenare la Seconda Intifada, critico degli accordi di Oslo. Nel 2004, decise di ritirare unilateralmente da Gaza l’esercito e i ben 8 mila coloni israeliani, che cercarono di opporsi con la forza. (Dall’anno dopo fu escluso dalla vita pubblica dal grave malore cerebrale).

E così via. Non c’è “falco” nella suicida e omicida leadership israeliana odierna di cui si possa giurare che non si imbatta in un ripensamento – in un ragionevole pentimento. Tranne Benjamin Netanyahu.
Un altro mio amico mi dice che tutto è diventato molto più disperante – lui è disperato. Dice che quei capi militari e politici avevano conosciuto le guerre, sentivano intimamente la precarietà e l’ambivalenza del rapporto con gli arabi, erano intellettuali pieni di lauree, mentre i capi di oggi sono nati negli anni ‘60 e conoscono solo l’esercito di occupazione. “Sono sergenti diventati generali. Basta ascoltarli”.

Terrò l’orecchio sul suolo, se il rumore delle esplosioni troverà un minuto di pausa.

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