(foto Ansa)

Piccola posta

Da al Shishani all'attacco di Mosca: il ramo caucasico del Califfato

Adriano Sofri

Che cosa ha a che fare l’Isis afghano-pakistana con la Russia? Mito e verità nella ricostruzione dell’attentato, tra credulità e incredulità

Nella sfida per il primato sulle menti contemporanee che le due gelose dee alla ribalta, Credulità e Incredulità, si muovono senza esclusione di colpacci, il capitolo sulla paternità della carneficina terrorista di Krasnogorsk segna un grosso punto a favore della seconda. Abbiamo non una ma una sequela di rivendicazioni dello Stato islamico del Khorasan, corredata di fotografie e registrazioni video. Un caso piuttosto straordinario. Che cosa ha a che fare l’Isis afghano-pakistana con la Russia? – chiedono tuttavia dubitatori ispirati.

Appena il 2 marzo scorso, le autorità russe comunicavano di aver ucciso in un conflitto a fuoco 6 militanti ingusci dello Stato islamico, in una “operazione antiterrorismo” a Karabulak, Inguscezia. I sei si erano barricati in un condominio della cittadina, 30 mila abitanti. Fonti non ufficiali davano notizia di un passante ucciso nello scontro prolungato. Ai militanti jihadisti uccisi erano attribuiti attentati diversi, compreso un attacco alla polizia locale, nel marzo dell’anno scorso, che aveva fatto tre morti.

L’Inguscezia è una repubblica della Federazione russa di appena 3.700 chilometri quadrati, dunque decisamente più piccola del Molise, che confina con l’Ossezia del nord, la Cecenia e la Georgia. E’ stata unita alla Cecenia fino al 1992, e ha tuttora un quinto della popolazione cecena, sul suo mezzo milione di abitanti.

Le fonti ufficiali russe sostengono che i cittadini russi, per la gran maggioranza caucasici, che hanno combattuto con lo Stato islamico, sono stati 4.500 – cifra largamente inferiore a quella reale. Com’è noto, il comandante militare dell’Isis-Daesh nel Califfato tra Siria di Raqqa e Iraq di Mosul si era chiamato Abu Omar al Shishani, il Ceceno. Il suo vero nome era Tarkhan Tayumurazovich Batirashvili, era nato nel 1986 in Georgia da un padre cristiano ortodosso e da una madre cecena e musulmana sunnita della Valle del Pankisi. Già combattente nelle file cecene della “seconda guerra”, poi nell’esercito georgiano, incarcerato e convertito all’islamismo, andò in Siria dove la sua brigata cecena si fuse con altre formazioni qaediste, una delle quali intitolata a “Umar al Khattaṭṭāb”. Batirashvili-Shishani aderì al Califfato, vi si distinse per la prodezza militare, fu dichiarato morto dai diversi nemici più volte, fino a una, probabilmente definitiva, nel 2016.

Il Khattab sopra menzionato era stato l’autore principale della disgraziata conversione islamista dell’indipendentismo ceceno. Lo conobbi e lo racconto nel mio libro sulla prima guerra cecena. Saudita, di una famiglia eminente, era passato dal Pakistan e forse dalla Bosnia, era andato a combattere coi mujahidin afghani nella decennale guerra seguita all’invasione russa dell’Afghanistan, 1979. Su quelle montagne aveva fraternizzato coi giovani combattenti caucasici reclutati dalla Russia e passati nel campo opposto, e specialmente col più temerario di loro, il famoso e poi famigerato Shamil Basaev. Insieme erano venuti in Cecenia passando dal Tagikistan, dove trascorsero un periodo legandosi a insorti islamisti di quel paese. Quando lo incontrai, aveva un inseparabile commilitone tagiko. Khattab morì nel 2002, avvelenato da una lettera intrisa di nervino: la sua memoria è venerata dagli islamisti sunniti (Basaev morì in un’esplosione nel 2006).

Ho ricapitolato questi pochi dati per mostrare come sia annoso e radicato il confronto fra filiale asiatica dello Stato islamico, erede del Califfato sconfitto – ma tutt’altro che debellato – nel vicino oriente, e come sia rimasto identico l’itinerario, dall’Afghanistan e, dietro, dal Pakistan, al Tagikistan a Mosca. Quanto all’ipotesi di un legame fra i quattro autori di Krasnogorsk e il governo ucraino, è delle più inverosimili mai escogitate. Si è ricordata una partecipazione cecena, oltre a quella ufficiale, smargiassa e vile delle bande di Kadyrov al servizio di Putin (e disprezzate sia dai combattenti ucraini che dalla buonanima di Prigozhin), di volontari dalla parte ucraina.

Ci sono, dichiaratamente, volontari, in un numero di poche centinaia, a volte misti a georgiani, e motivano la propria partecipazione al modo in cui lo facevano i volontari repubblicani in Spagna: “Oggi in Spagna domani in Italia” – Oggi in Ucraina, domani in Cecenia. Sono completamente alieni dal fondamentalismo religioso, i loro responsabili politici vivono in esilio in Europa, hanno nomi e cognomi, dicono pubblicamente il loro ideale.

Degli sciagurati arrestati e torturati dai servizi russi, riconosciuti come tagiki, vorrei osservare due cose, che dovrebbero essere ovvie. La prima, che la differenza fra la spietatezza e l’apparente efficienza con cui hanno portato a termine, se siano loro, il massacro degli inermi, e la miserabilità del loro aspetto di catturati non può sorprendere: ci sono condizioni in cui la punizione fisica porta pressoché a un annientamento della personalità. La seconda, un corollario, è che proprio quella schiacciante distruzione inficia qualunque cosa si metta loro in bocca, oltre all’orecchio mozzato.

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