(foto Ansa)

Piccola posta

L'abuso che si fa del nome di Assange per rimpicciolire quello di Navalny

Adriano Sofri

Alcuni giornali scrivono del dissidente russo nelle pagine interne e strillano Assange in prima. Tra liquidazioni legali e democrazie avviate al suicidio

Gentile Michele Magno, benché lei sia esemplarmente attento, nella lettera di ieri le è sfuggito un dettaglio importante. Amnesty International aveva bensì escluso nel 2021 Aleksej Navalny dalla lista dei “prigionieri di coscienza”, ma aveva riconosciuto nemmeno tre mesi dopo di aver commesso un grave errore e se ne era scusata, restaurando il nome nella lista. Deduco dalla sua lettera che a indurla in errore sia stata Ginevra Bompiani, che, lei dice, in un programma della Rete4 aveva ricordato l’esclusione da parte di Amnesty (e non la sua correzione). Se Bompiani avesse evocato il precedente di Amnesty per unirsi al volenteroso rimpicciolimento della figura di Navalny, ne sarei triste, come chi ebbe buone ragioni per non aspettarselo.

Il rimpicciolimento è del resto impresa cui si sono dedicati in parecchi, con una coincidenza non rara di posizioni, prima che politiche, umane, dalla Lega a giornali di destra al Fatto e a esponenti dei Cinque Stelle. Non è facile convivere con la propria meschinità, con la propria viltà, con la propria vanità, senza sentirle frustrate e ridicolizzate da uno che ha vissuto del proprio ideale e ne è morto, e ha riso dei propri persecutori. Ho guardato e ascoltato altri spericolati volontari del rimpicciolimento, che squittivano di non potersi misurare con interlocutori incompetenti, e recitavano certe frasi pronunciate da Navalny “nel 2008”. E gli interlocutori, comprensibilmente sdegnati, obiettare che nessuna frase sbagliata potesse inficiare il coraggio e la coerenza di Navalny e l’infamia dei suoi assassini. In tanti hanno commemorato Navalny “nonostante sue posizioni inaccettabili o controverse”. I più avevano sì e no scorso una voce di Wikipedia. Navalny aveva ripudiato da tempo le posizioni nazionaliste sulle quali aveva originariamente fondato la sua denuncia dell’impostura e della corruzione di Putin e del suo regime, e l’oltranzismo venato di razzismo contro l’immigrazione interna e i culi neri caucasici. Aveva conservato la documentazione pubblica di quelle posizioni per non dare l’impressione di occultarle, mentre si batteva per i diritti civili, per le minoranze sessuali messe al bando, per i ceceni vessati da Kadirov, per una Russia europea, per le elezioni e l’informazione libere, contro la guerra all’Ucraina.

Era stato aggredito fisicamente più volte, e ne era stato menomato stabilmente. Era stato avvelenato mortalmente, e aveva indotto gli autori a confessarlo, spaventati del loro fallimento: un tiro che sarebbe sembrato goliardico, se non avesse messo in gioco un uomo ferito e inerme contro il mandante della sua distruzione. Mentre si consegnava deliberatamente ai suoi torturatori svelava al mondo il palazzo imperiale di Putin sul Mar Nero. Uno così, volete che i vigliacchi dal piccolo successo non ne sfregino la memoria, mentre ancora gli assassini ne nascondono il corpo?

Eccoli, a chiedere che “si faccia chiarezza”. A raccomandare che si attenda che la giustizia russa, e i suoi medici legali, facciano il loro corso. A mettere in guardia contro le deduzioni affrettate: non è forse vero che Putin avrebbe avuto interesse a risparmiarsi questo chiasso alla vigilia delle elezioni? E poi, la Bild e lo scambio di prigionieri... A Putin sarebbe convenuto tenerlo in vita, dopo averlo avvelenato, dopo averlo incarcerato e condannato, dopo averlo chiuso in una colonia penale e punito a ripetizione con la cella d’isolamento, e deportato in una clausura glaciale, fino alla passeggiata e all’imprevedibile incidente… E poi, Assange. Nelle pagine interne Navalny, per strillare Assange in prima. Il loro eroe comparato. Io ho orrore della vendicativa detenzione di Assange e della minaccia che gli pende sul capo. Le democrazie che tengono alla sua liquidazione legale compiono un altro passo verso il proprio suicidio. Forse Assange piangerà anche dell’abuso che si fa del suo nome per rimpicciolire quello di Navalny.

C’è un’ultima cosa, la più importante. Navalny e Sharansky si scambiano lettere che parlano della stessa disgustosa galera che li ha ospitati e tormentati. Hanno un tono impavido e ironico. “Sono scoppiato a ridere”, scrive Navalny, a riconoscere la propria punizione in quella identica inflitta a Sharansky dall’Unione sovietica. (Scrive anche: “Mi è stato impossibile non cominciare a piangere”, leggendo dell’incontro di Sharansky liberato con la moglie, “Scusa il ritardo”). Ridere, piangere. Sanno, l’uno e l’altro, che bisogna conservare l’ironia, farsene proteggere, e proteggere i propri cari. Mostrarsi con uno spirito intatto, al mondo dei liberi, che non possono immaginare tutto, e ai ceffi dei carcerieri, che non devono mai sentirsi vittoriosi. Di uno che si è immolato come, letteralmente, un martire, le ultime parole sono quelle al suo giudice remoto, se volesse mandargli qualche soldo perché il suo gruzzolo carcerario si va riducendo.

Ma chiunque, come sua moglie, i suoi figli, deve immaginare anche il momento in cui l’ironia non ha più posto, la resistenza materiale del corpo cede, il sentimento della fine e di una fine solitaria, fra nemici, esausta, ha la meglio. Si muore così, quando si è stati ironici ed eroici, quando si è umani.

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