Piccola Posta

Avere Netanyahu come comandante in capo è autolesionismo

Adriano Sofri

Il premier israeliano è uno dei pochissimi leader di Israele a non aver mai fatto una guerra. Ora ce l'ha ed è la più grossa. Può affrontarla per riscattarsi, o per salvarsi dai propri guai antichi e nuovi

Mentre Putin a Pechino soccombeva sotto le effusioni di Viktor Orbán (e del serbo Aleksandar Vucicć), Joe Biden a Tel Aviv aveva l’aria di un ostaggio della tragica circostanza. Bruscamente spezzata la trama costruita dal frenetico andirivieni di Blinken, e con essa il proposito di stabilire un morbido commissariamento politico-militare di Bibi Netanyahu, il presidente americano ha ribadito il sostegno a Israele. Gli ha aggiunto l’impegnativa convinzione che l’esplosione all’ospedale di Gaza sia stata l’opera di “un’altra squadra”. Si è risarcito figurando un futuro di convivenza fra i due popoli. Ha evocato una risposta forte quanto quella americana dopo l’11 settembre, ma diversa. Ha potuto ricordare la Shoah e citare Mosé e ripetere che se Israele non esistesse bisognerebbe inventarlo. Israele esiste, e bisogna inventare qualcosa, oltre la sua difesa. 

  

Netanyahu, dal quale Biden si era tenuto alla larga lungo l’avventura del governo bigotto e sciovinista piegato a sostenere l’oltranza dei coloni e a salvare lui dalle grinfie dei tribunali, aveva spinto sul tasto della straordinaria cordialità dell’incontro. Netanyahu aveva rimesso insieme una maggioranza dopo un voto disertato da buona parte di elettorato disgustato, ed era stato azzoppato da 40 sabati di manifestazioni imponenti, compresi gli astensionisti rinsaviti. Dopo l’abominio del 7 ottobre, i capi dei servizi e degli stati maggiori hanno esplicitamente e dolorosamente detto di sentirsi colpevoli dell’inettitudine a prevedere il colpo di Hamas e a soccorrerne le vittime. Bancarotta tanto più penosa a paragone del coraggio di tante persone, e delle tante donne di cui scriveva ieri Manuela Dviri, contro “Bibi e i suoi ministri di destra e di estrema destra: tutti maschi”. Una gran maggioranza di israeliani, compresa una larga quota degli elettori del Likud, considera Netanyahu come il responsabile primo del disastro: qualcuno ne vorrebbe subito la dimissione, altri, i più, la esigono, in nome di una graduatoria di responsabilità, “a guerra finita”. Netanyahu non ha offerto scuse, e soprattutto non ha giustificato la propria permanenza a capo di un governo sia pur rimpastato, impegnandosi a lasciare un minuto dopo aver adempiuto al compito. È noto, Netanyahu, per essere dei pochissimi capi d’Israele a non aver mai fatto una guerra. Ora ce l’ha, la più grossa. Può affrontarla per riscattarsi, o per salvarsi dai propri guai antichi e nuovi. Nel secondo caso, che sembra il più appropriato a lui, un ostentato rincaro di durezza sarà, è già, il suo azzardo. 

   

Il massacro nel massacro dell’ospedale di Gaza vuole spazzar via il cauto controllo degli alleati, con una tempestività così incredibile che la cosa più ragionevole è credere davvero a un errore, o a una maledetta combinazione di errori – compreso il caso, che pare il più plausibile, del razzo del Jihad islamico. Ma che un paese, anche il più ferito e combattivo com’è oggi l’Israele dei riservisti, affronti il suo combattimento fatale, e la prospettiva strategica che sola può sostenerlo, con un comandante in capo così squalificato è un caso raro di autolesionismo. 

  

Biden, con la sua ostinata volontà di ricandidarsi, si era messo a un forte repentaglio col viaggio in Israele e ad Amman, l’incontro con Abu Mazen e il freno da imporre al bombardamento di Gaza. Non ha cancellato il viaggio: probabilmente non poteva, e ha valutato che la sua venuta, pur così mutilata, sarebbe stata la scelta meno dannosa. Non poteva nemmeno, secondo la ragione degli stati, parlare a muso duro con Netanyahu, in pubblico almeno: lo avrebbero detto irresponsabile di fronte a Israele in guerra, e colpevole di trattarlo come un protettorato americano. Infine, non poteva chiedere, rispettando il regolamento, un colloquio carcerario con Marwan Barghouti, senza alcun impegno, senza alcuna conseguenza: un’applicazione della raccomandazione a visitare i carcerati. Forse non avrebbe nemmeno potuto pensare tra sé e sé a una pazzia del genere. Forse sì.

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