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A ciascuno il suo: Saviano ha girato a Salvini l'epiteto che usò Salvemini contro Giolitti

Adriano Sofri

Il ministro dovrebbe contentarsi di essere stato implicato nella definizione salveminiana di "Ministro della malavita". Un ripasso di storia (con qualche accenno all'oggi)

Vediamo se ho capito. Roberto Saviano ha chiamato – “ripetutamente”, è recidivo – Matteo Salvini “Ministro della malavita”. Cioè gli ha girato l’epiteto che Gaetano Salvemini aveva coniato nel 1910 per Giovanni Giolitti e il suo trattamento del meridione d’Italia. Salvemini era stato intrepido e intransigente nella sua denuncia del giolittismo, della sua alleanza con l’industria del nord e con gli stessi rappresentanti degli operai, e del suo disprezzo per le “razze inferiori” meridionali, i contadini analfabeti ed esclusi dal suffragio (fino al 1912, quando il giolittiano suffragio maschile divenne “universale” sopra i 30 anni). C’era uno scandalo morale che rendeva la voce di Salvemini formidabile. La descrizione del governo dei mazzieri, di “prefetti, questurini e malviventi”, di mafia camorra e malavita, dei “contadini massacrati e i loro uccisori decorati”, della reciproca dipendenza di quelli e di Giolitti: “E’ il loro capo, dunque deve servirli”. Salvemini auspicava, senza illusioni, che la “resistenza passiva” della gente meridionale fosse un giorno rotta da “qualche atto di resistenza armata”.

Però Salvini dovrebbe contentarsi di essere stato implicato nell’epiteto salveminiano. Da allora, non si è fatto altro che deplorare l’unilateralità di Salvemini e rivendicare la “complessità” (ha una storia antica questo refugium oggi così in voga) se non addirittura la benemerenza del giolittismo, sul quale il fascismo non si sarebbe innestato, e l’avrebbe invece soltanto rinnegato e rovesciato. Non so, direi che il cuore della politica giolittiana, temere le forze disorganizzate e promuovere e integrarne l’organizzazione, realizzata nell’Italia “liberale” fino alla Prima guerra, si realizzò solo e proprio grazie al complemento della politica della malavita nella metà meridionale. La storiografia è stata molto benevola con Giolitti, compresa gran parte di quella antifascista, e Croce e Togliatti. Si è detto che lo stesso Salvemini avesse voluto, se non rinnegare – figurarsi – attenuare il rigore del suo giudizio. In ogni caso, Saviano che dà oggi a Salvini del “Ministro della malavita” ha una sua specie di castità. La storia era cominciata quando Salvini aveva dato a una giovane donna, impegnata a sottrarre vite umane al fondo del mare già gremito, di “zecca tedesca”. Non era esattamente una citazione. Ovvero, era una combinazione di echi raccapriccianti, “zecca”, insetto ritenuto infimamente disgustoso, più che pidocchio, e appannaggio di squadristi e tifoserie, e “tedesca”, a sua volta ritramutato da aggettivo comune in ingiuria etnica. E i due termini insieme perfezionati dalla desinenza femminile. Tre razzismi, insetto, donna, tedesca. C’era tutto. Frequentatore ora volente ora nolente di bassifondi, non avevo mai incontrato un simile capolavoro. Dal cui trattamento critico in un tribunale Salvini è stato esonerato da un Senato geloso, questa volta, delle sue prerogative. In fin dei conti, la zecca tedesca è costata a Salvini una vicepresidenza del Consiglio e un ministero dei ponti. A Saviano, il ministro della Malavita è costato un programma Rai già registrato di quattro puntate. “Là c’è una giustizia, finalmente”, avrebbe detto Alessandro Manzoni. “A ciascuno il suo”, avrebbe detto Leonardo Sciascia.