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Dubbi a margine di Galli della Loggia: forse non è vero che in Cina non leggono i classici

Adriano Sofri

“Nelle scuole della Repubblica popolare cinese sono sicuro che delle ‘Confessioni’ di Agostino o degli ‘Annali’ di Tacito nessuno ha mai sentito parlare", ha scritto lo storico sul Corriere. Ma esistono reportage sull’auge degli studi classici greco-latini nelle università cinesi

L’editoriale di ieri di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, dedicato alla decadenza dello spirito pubblico e alla perdita del senso della storia (e della geografia), aveva un paragrafo finale che mi ha lasciato interdetto. Sia perché era così inspiegato da sembrare posticcio, sia per il merito. “Nelle scuole della Repubblica popolare cinese sono sicuro che si tengono ottimi corsi di fisica atomica e di biologia molecolare ma che delle ‘Confessioni’ di Agostino o degli ‘Annali’ di Tacito nessuno ha mai sentito parlare. E’ proprio sicuro che a noi in Occidente convenga cercare di imitarle?”.

Chissà perché, mi ero fatto l’idea che le cose stessero più o meno alla rovescia. Nient’altro che un’impressione. Qualche non più freschissima lettura (Salvatore Settis, Futuro del classico, Einaudi 2004: la storia greco-romana ci appartiene ancora più che quella indiana o giapponese o cinese?). Qualche racconto di docenti di classicità greco-romana in università occidentali più frequentate da studenti cinesi. Qualche constatazione malinconica sulla insofferenza per l’eredità classica occidentale intesa come un pretesto di superiorità culturale. Qualche reportage sull’auge relativa degli studi classici greco-latini nelle università cinesi: per es. Chang Che, “La Cina guarda ai classici occidentali”, The China Project, gennaio 2022, che dà conto di passaggio della traduzione completata di Aristotele nel 1997 e del successo di Leo Strauss e di Carl Schmitt, i quali sembrano assicurare contro i rischi degli eccessi progressisti occidentali, dal femminismo in giù. Soprattutto, ho l’impressione che le conoscenze nostre di classici cinesi paragonabili a Tacito o ad Agostino, perfino di noi connazionali di Matteo Ricci, non si mostrerebbero maggiori.

Aspetto l’opinione di chi conosce la materia. Ho due postille. La prima: gli studenti cinesi all’estero hanno un’incomparabile, mirabile vorace volontà di far tesoro dell’occasione che viene loro offerta di imparare: qualsiasi cosa. La seconda: il mondo ha ospitato, dal 2004 in poi, una quantità di “Istituti Confucio”, qualcosa come l’equivalente cinese della nostra Società Dante Alighieri. Gli Istituti si sono mostrati strumenti piuttosto grossolani di propaganda del regime cinese, e di controllo delle relazioni culturali, e universitarie, fra Cina e resto del mondo. Ciò che ha portato in molti luoghi, Stati Uniti, Canada, e numerosi paesi europei, alla chiusura di oltre 130 Istituti. In Italia, dove la loro attività è stata denunciata da studiosi autorevoli come Maurizio Scarpari (anche sul Corriere), e dove i legami con università prestigiose sono particolarmente impegnativi (come l’interesse peculiare messo alla Via della Seta) senza – se non m’inganno – alcuna conseguenza pratica, tranne un formale aggiustamento del marchio da parte cinese.

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