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piccola posta

La grottesca teoria dell'attentato a Putin

Adriano Sofri

I droni, la ricerca dell’incidente atomico e il colmo del giocare con il fuoco con Mosca. In tempi così, è facile spararla grossa per fare il verso ai missili e alle bombe

Si sono ricordati i presunti precedenti. Nel 1987 un tedesco di 19 anni, Mathias Rust, un mattacchione, atterrò col suo aeroplanino, eludendo i radar sovietici, sul selciato della Piazza Rossa a Mosca. Licenziato il ministro della Difesa, Gorbaciov graziò il giovane avventurista. Lo slogan di allora era: “Una risata vi seppellirà”. Un risotto, anche: anni dopo Rust aprì un ristorante nella Piazza Rossa. Ufficialmente erano ancora tempi di Guerra Fredda. Sono tornati: il miraggio di Putin e, molto più sornione, di Xi, è una Guerra Fredda globale, senza più l’incomodo dei non allineati. Anzi, sono la Russia la Cina e il loro seguito a proclamarsi non allineati (la Cina ha scelto la giornata di ieri, dopo i droni di Mosca, per rettificare: non pensa che quella russa sia “un’aggressione”, benché l’abbia votato all’Onu – si era distratta).

 

Le cose dubbie, conviene giudicarle dai loro effetti. Non devono essere molti i cittadini russi persuasi che quei droni siano fatti in casa: più numerosi fra le minoranze, in memoria dei condomini esplosi a Mosca nel 1999 sulla cui scia si scatenò la seconda guerra di Cecenia e l’avvento di Putin. Ma a credere che siano stati gli ucraini, i cittadini russi devono essersi fatta un’idea malinconica della propria sicurezza. In Ucraina, a quel che sento, è difficile trovare qualcuno che attribuisca i droni di Mosca ai propri capi: pensano che se lo siano fatto i russi, o i colleghi di Putin, o i suoi avversari. Obiezioni tecniche a parte – dirigere due droni proprio sul pennone della cupola del Cremlino – l’argomento è politico: Putin e il suo stato maggiore hanno un bisogno estremo di prevenire la “ever-imminent” controffensiva, intorbidando le acque, autorizzandosi la rappresaglia, e macchinando qualche clamoroso dirottamento del fronte. La grottesca dichiarazione secondo cui i due droni miravano a uccidere Putin – troppa grazia – spinge l’abuso del termine “esistenziale” all’estremo: quale minaccia è più esistenziale di quella all’esistenza fisica del Capo? E dunque, che arma può essere esclusa? E’ spiritosamente singolare la credulità con cui le cronache scrivono che Putin “non era al Cremlino: lavorava nella sua residenza di Novo-Ogarievo”. Chissà dov’è, Putin: in cielo, in terra, eccetera. Zelensky era a Helsinki, poi all’Aia: di tutte le ipotesi, la più inverosimile è che fosse a parte del colpo dei droni, che oltretutto lo ha rimesso al centro del mirino. Si può pensare che delle manine russe abbiano spedito i droni a insaputa di Putin; se fossero delle manine ucraine a insaputa di Zelensky (e degli americani) sarebbe un vero disastro.

 

Mi sembra ancora improbabile che Putin voglia ricorrere alla bomba nucleare tattica, benché la sua muta non faccia che abbaiarla, che è già metà dell’opera. Continuo a temere l’impiego della bomba atomica della centrale di Energodar, Zaporizhia, che permette di imputare gli ucraini e comunque di sollevare una nuvola e una nebbia tali da sconvolgere il quadro nel quale dovrebbe svolgersi la controffensiva ucraina. Nell’attesa – speriamo senza fine – mi preparo ad ascoltare le reazioni dei fautori della pace senza ma, nel caso peggiore, che a loro volta non smettono di evocare: se i russi sganciano l’atomica tattica, sarà stata colpa della Nato? Conosco la risposta. Non sarà mai troppo tardi per interrogarsi e interrogare sul che fare una volta che l’atomica sia stata usata, sarebbe già un passo avanti. (“Che fare. Bella risposta” – mette il punto il mio amico poeta, Ovidio). A meno che la risposta non sonnecchi già, “implicita”, nelle premesse: in luogo della resa ucraina, la resa universale, e non ne parliamo più. Molti sono i vicoli ciechi che prendono le utopie.

 

La notte ucraina fu piena di lampi, dopo i droni accesi su Mosca, ma i 22 ammazzati e le decine di feriti del mercato di Kherson erano del giorno prima, e continuano ad aggiornarsi, morti di assestamento. In tempi così, non bisogna esitare a spararle grosse di parole, per fare almeno il verso a questa sparatoria di missili e bombe. Una miniatura di Chernobyl può essere la soluzione per un Putin che, sconfitto, non sia così folle da ricorrere all’atomica – esiste pure la ritorsione, benché se ne possa dubitare. E che trovi invece nell’incidente atomico di Energodar, più o meno misurato, il rimescolamento di carte che faccia da causa di forza maggiore per fermarsi e di conseguenza mettersi a trattare, magari chiamando una sovrintendenza internazionale, come l’Aiea. Il pregio possibile di questa terrificante prospettiva – il colmo del giocare col fuoco – è che, assegnata all’Ucraina una parte di “vittoria”, Zelensky o chi per lui ne sarebbe autorizzato al negoziato che altrimenti non è in grado, ammesso che lo voglia, di affrontare.

 

Per l’Ucraina, il luogo della sorpresa è il mare, in cui è incomparabilmente più debole. Il mare le consentì, non per caso, il colpo più forte, con l’affondamento della Moskva. E anche il gran colpo dell’attentato all’aeroporto crimeano, forse realizzato con uno sbarco di commando. L’eventualità temeraria di un assedio della Crimea – non della riconquista. Il conflitto sta fra la guerra dei bottoni, Machiavelli e la strategia in tempi di IA. Infine, bisogna ricordare che l’Ucraina è il paese che ha lacerato il velo di lusso calma e voluttà del Vecchio continente con una abnegazione combattente che si direbbe di altri tempi, ha fatto scandalo, ha scoperto, come un emulsivo, la viltà sottesa al pacifismo; ma anche l’Ucraina è umana troppo umana, e può scricchiolare e cedere, e il suo collasso – non una rivolta, ma l’esaurimento, la consumazione – segnerebbe la vera disfatta dell’Europa.