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Il fattore umano, non visibile all'occhio, che fa la differenza a Kyiv

Adriano Sofri

Una formula ormai diventata tecnica in sociologia, dove si litiga sulla prevalenza rispettiva del capitale o del lavoro. Poi c’è la guerra, l’aggressione, la resistenza. Anche qui le previsioni sono sempre a un passo dall'essere smentite

Odessa, dal nostro inviato. Il fattore umano. La prima cosa che viene in mente è il romanzo omonimo di Graham Greene, 1978, trasposto in film da Preminger, 1979, ora ripubblicato da Sellerio, 2020, a cura di Domenico Scarpa e con una nota di Enrico Deaglio sulla spy story come “nuova definizione dell’eroe occidentale”. Il fattore umano è ormai una formula tecnica in sociologia, dove si litiga sulla prevalenza rispettiva del capitale o del lavoro, o nell’infortunistica, dove gli statistici calcolano che il 90 per cento degli infortuni dipendano da errori umani. (Ma eccovi l’opinione competente di Franz Kafka, impiegato delle assicurazioni boeme contro gli infortuni sul lavoro: “Come sono umili questi lavoratori... Vengono da noi a supplicare. Invece di prendere d’assalto l’Istituto e fracassare ogni cosa”). 

Poi c’è la guerra, l’aggressione, la resistenza. In tutta la prima fase della guerra d’Ucraina, l’incidenza del “fattore umano” è stata vistosa: i russi invasi dalla sensazione di potenza, gli ucraini mossi dalla volontà di difesa, con armi infime e incursioni e imboscate temerarie. Era il modello Davide e Golia, col Golia di nuovo intontito e stupefatto, incapace di prevedere e capire quello che gli stava succedendo. Poi, man mano che il tempo passava, e la marcia trionfale – con le uniformi di gala pronte per la parata – si aggiornava a data da destinarsi, e le decine di km di tank impantanati facevano da bersaglio agli armati territoriali e ai patrioti allo sbaraglio, la rispettiva potenza si andava equilibrando: ridimensionati gli obiettivi dell’invasore, dotato l’esercito ucraino di armamenti via via più sofisticati dagli alleati e dalla Nato. Quel cambiamento era destinato a influenzare i sentimenti degli spettatori. La simpatia iniziale, inevitabile se non negli sfortunatamente cinici e nei compravenduti, per il più debole e il difensore del paese e della dignità, veniva messa in confusione dal resoconto quotidiano della gara di missili, razzi, droni, cannoni, aerei, navi e sistemi d’arma dalle sigle e dagli effetti enigmatici. Il fattore umano sembrava via via soverchiato dal concorso tecnologico, la guerra da lontano, senza facce e senza nomi. A contraddire questa sensazione restava certo l’offerta esosa di cifre di caduti e feriti, migliaia e centinaia di migliaia da una parte e dall’altra: com’era possibile, ora che il fattore umano era così retrocesso e tutto sembrava giocarsi sul piano delle Santebarbare reciproche? A questo punto il fattore umano sembrava ridotto solo a quella cifra esorbitante da mattatoio. Gli esperti, veri o autonominati, assecondavano questa scomparsa dell’umanità dal fronte e dai suoi retroterra, quello ucraino, a ridosso, e quello russo, remoto e ignorato – “le madri”, buriate, cecene, daghestane, le madri del Volga delle centinaia di soldatini mobilitati e ignari della scuola di Makiivka a Capodanno... “Ora che la guerra è diventata d’attrito – scrivevano per esempio Olimpio e Marinelli sul Corriere – lo squilibrio morale si è livellato”... Tuttavia: “La guerra in Ucraina ha confermato quello che i soldati sanno da secoli, hanno scritto John Spencer e Lionel Beehner sul Kyiv Post: il morale delle truppe è più importante di qualsiasi arma o dottrina militare, porta con sé motivazioni, fiducia, coraggio, coesione, un senso di controllo del proprio destino. I soldati che per quasi tre mesi hanno combattuto nei tunnel dell’acciaieria Azovstal a Mariupol, ne sono stati un simbolo e hanno ispirato la resistenza”. Ogni tanto, allo spettatore profano si apriva qualche spiraglio sul ruolo del soldato in carne e ossa, del “fattore umano”: nell’inquadratura della trincea scavata nel fango, così simile a quelle di Caporetto, nei video di qualche impresa ardita e simbolica – la barchetta che attraversa il Dnipro di Kherson per annodare una bandiera sulla cima di una gru sulla sponda sinistra, l’incendio e l’esplosione dell’aeroporto militare russo in Crimea... 

La controffensiva nell’oblast’ di Kharkhiv sembrò ripristinare clamorosamente il confronto sul “fattore umano”: l’avanzata, prima saggiata, poi disfrenata – “fin dove vi dura il carburante!” – della brigata ucraina, e la fuga, prima sconcertata e interdetta, poi mutata in panico e vera rotta, degli occupanti russi. Nessuno dei due se l’aspettava, forse. Certo non i russi, che hanno continuato in tutti questi mesi a restare ostaggio di una strana sicumera, a cominciare dai loro capi: ma gli uni si riprendevano la loro terra, gli altri scappavano da un luogo ostile in cui erano stati mandati senza sapere perché, se non per saccheggiare o disertare e fuggire. 

Sul Kyiv Post, quotidiano in lingua inglese dalla vicenda avventurosa (da una sua costola licenziata venne nel 2021 il quotidiano online Kyiv Independent) è uscita ieri l’intervista di Ugo Poletti, italiano di Odessa, al colonnello in congedo Orio Giorgio Stirpe, italiano residente in Norvegia. Il colonnello tiene, con qualche pausa, un commento quotidiano allo svolgimento della guerra in Ucraina che gli ha meritato un seguito crescente. Un profano come me ne impara molto, serbando una diffidenza di metodo dai richiami alle leggi, o comunque alle regolarità, della strategia, che rischiano di non fare la parte che spetta al caso e alle alzate d’ingegno di umani, dèi e meteorologia. Stirpe non è un integralista e può capitargli di veder contraddette le sue analisi, e di riconoscerlo: così per lo stallo supposto all’inizio di settembre, e travolto dalla controffensiva sul territorio di Kharkhiv. Nel testo ospitato dal quotidiano ucraino Stirpe insiste su un suo tema essenziale: a fare la differenza non sono i numeri – delle truppe, dei veicoli, dei missili, dei droni... – bensì il morale dei combattenti, la loro motivazione. Penso che sia vero, come ho provato a dire. E che sia importante spiegarlo concretamente, per dissipare la cortina di fumo che si leva da ogni video di esplosione dall’una e dall’altra parte, e fa ritenere che si stia combattendo una guerra dei mondi, fra arsenali più o meno ammodernati, e che il fattore umano – soldati, civili, famiglie, rimaste o riparate altrove – sia un accidente collaterale non più visibile all’occhio nudo e offuscato dello spettatore. Salva qualche fessura, appunto: come il discorso del vanesio imprenditore di mercenari della Wagner, Prigozhin, che ieri spiegava che sulla via di Bakhmut i suoi trovano una linea difensiva ogni dieci metri, e le linee difensive sono centinaia, altrettante quanti i difensori, e che si combatte casa per casa – un ricordo di Stalingrado, ritorto contro chi lo evoca.

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