Foto di Adriano Sofri

piccola posta

Sul fronte di Kherson, nell'Ucraina che non si è arresa al più forte

Adriano Sofri

Il calendario dei bombardamenti russi è implacabile. La sindaca della città liberata ci dice che si lavora sottoterra, si accolgono tutti ma c’è da fare attenzione alle spie. Le evacuazioni difficili e il mercato colpito 

Kherson, dal nostro inviato. Eccola dunque Kherson: finalmente. C’è una piccola signora, sembra molto anziana, ha un cappottone che le arriva ai piedi, non dev’essere stato suo, una volta. Tira un carrellino a due ruote, forse va a ritirare la sua dose di aiuto umanitario. Cammina piano, e chi pretenderebbe che si mettesse a correre, una così. Naturalmente sa di muoversi in un campo minato. Minata non è la strada su cui cammina – anche – ma il cielo, e da un momento all’altro il cielo le può cadere addosso, in forma di pioggia di fosforo, o di grappolo, e farla a pezzi.

 

Si sente la cadenza delle esplosioni, senza furia, con una specie di regolarità. Nel pomeriggio arriva un po’ di furia, mirano a case, a un asilo infantile, a un pronto soccorso – ammesso che mirino. Non ci sono vittime, per una volta – finora, quando scrivo. 

  

C’è un uomo che porta al guinzaglio un cagnolino, il cagnolino ha un cappottino rosso e lo tira. I cani non possono restare chiusi in casa. Ho imparato che ad accomunare all’animale umano gli altri animali è soprattutto la paura. C’è una fraternità speciale fra umani e altri animali nelle città bombardate. Penso a quelli che dicevano –  lo dicono ancora, l’animale umano è attaccato al suo pregiudizio –  che se l’Ucraina si fosse arresa al più forte, pur senza rinnegare la propria ragione, si sarebbe risparmiata tante vite e tante distruzioni. Guardate Kherson, e capirete come sarebbe andata.

 

Al colonnato d’ingresso col nome monumentale della città c’è ancora un pellegrinaggio di persone che vengono a farsi la fotografia. Ci sono due bambini, avvolti nella bandiera gialla e blu, salutano le auto e i camion di passaggio, che rispondono suonando il clacson. 

   

Foto di Adriano Sofri  
    

Difficile dire, a chi non c’era, quanto desiderio si fosse rappreso attorno al ritorno di Kherson. Kherson, il suo nome limpidamente greco, non aveva, come Mariupol, a che fare con il Luhansk e il Donetsk, la loro guerra già d’aggressione e la loro guerra in parte civile stagionata di otto anni. Era un’Ucraina amputata del punto finale del suo gran fiume, della città delle angurie e dei meloni, delle villeggiature nel deserto di sabbia e dell’esilio crimeano. La città che era stata per un terzo ebraica, e patì il pogrom della prima rivoluzione russa nel 1905, del governo “bianco” dopo la Prima guerra, finché in due giorni del settembre 1941 i nazisti ne mitragliarono 8 mila in una fossa comune. Quest’anno a Kherson, ci si diceva, benché sembrasse implausibile quella riconquista, dopo che la città era stata tradita dai suoi capi e consegnata senza colpo ferire all’avanzata russa, incredula di un simile regalo: il solo capoluogo di oblast’ guadagnato dagli invasori. C’erano stati i giorni delle manifestazioni inermi dei cittadini contro gli occupanti, dei sequestri di sindaco e dirigenti fedeli, poi della lunga resistenza fatta di sabotaggi e attentati, e ripagata da carcere e detenzioni segrete e camere di tortura. I programmi delle scuole erano stati rifatti, gli insegnanti spediti a riconvertirsi a Sebastopoli o buttati in strada. I russi avevano portato il loro madornale esercito di qua dal Dnipro e tenevano la città come si tiene il trofeo più prezioso e insperato, e intanto gli ucraini preparavano il colpo gobbo nella regione di Kharkiv, la vecchia capitale: altro che Kherson, sembrarono dire, e ridere, a settembre. E l’11 novembre toccò anche a Kherson, coi russi imbambolati. Avevo aspettato, ma non abbastanza. Quest’anno, tuttavia, è agli sgoccioli, ma non è ancora finito.

 

Il meteo di martedì 27 dicembre per Kherson è benigno: max. 9° - min. 1°, pioviggine. La compagnia è pressoché casuale, si è formata poco fa. Carlotta è un’inviata della Rai, Vincenzo l’operatore. Sono appena arrivati da Kyiv per una breve notte a Odessa, e per proseguire alla volta di Kherson. Li accompagnano Slava e Alla, ambedue di Odessa, lui è un fixer e un driver, come si dice, popolarissimo fra i giornalisti italiani per l’ottimo italiano che parla con una cattivante intonazione campana, lei una giovane studiosa, poeta e saggista, inedita ancora, e poliglotta, che ha lavorato coi più importanti giornali internazionali. Slava in realtà è un giornalista, un intervistatore capace di stimolare e ascoltare le cose più importanti da interlocutori scelti con il piacere dell’umanità. Non vede da tanti mesi la sua giovane famiglia, che si è rifugiata all’estero, “in Europa”, l’altra. Accettano di imbarcarmi con loro, quinto, e del resto la mia non è vera concorrenza. Si parte presto, ci sarà una fermata a Mykolaiv e un collegamento intermedio, dalla città che fino alla liberazione di Kherson era il bersaglio più accanito e rabbioso dei bombardamenti russi, dopo l’illusione iniziale di passarci attraverso e travolgere Odessa e continuare fino al Danubio, alla Transnistria, alla Moldavia – al Kosovo... Ora la martoriata Mykolaiv ha riguadagnato un’acqua arrugginita e ha preso le distanze dalla gittata dei russi, dopo che sono scappati a rotta di collo da Kherson e se ne vendicano bombardando alla cieca, dall’altra riva del Dnipro, la città che non li ha mai voluti. Femminicidio e urbicidio sono neologismi parenti, coniati pressoché nello stesso torno di tempo. Prima dell’invasione, Kherson aveva 330 mila abitanti. Ne sono rimasti 70 mila, e l’evacuazione continua. Il governo ucraino non fa che raccomandare a tutti i suoi cittadini, passata la gioia della liberazione, di lasciare la città e riparare altrove, e in molti, la maggioranza, l’hanno fatto. Molti non hanno potuto, ostaggi deportati a forza nella ritirata russa. Altri non l’hanno voluto, scegliendo di restare a casa loro piuttosto che avviarsi con un paio di valigie alla volta di chissà quale futuro, benché sul tetto della loro casa non si possano scommettere cinque grivne che arrivi fino a domani. Il 24, vigilia del Natale d’occidente, le bombe russe sugli ospedali, compreso quello psichiatrico (Medici senza frontiere ne avevano già portato via 250 ospiti) e quello oncologico, e soprattutto sul mercato, hanno ucciso 16 persone, ferite 64, 18 delle quali fra la vita e la morte. Visitiamo il mercato centrale, i due punti della strage. Una strada, con l’asfalto sfondato, le auto incendiate. Un po’ di padiglioni interni, i banchi della frutta, un negozio di cose elettriche incenerito, accanto c’è un saloncino di bellezza intitolato Love Story, illeso, lui e le sue principesse manifesto. 

     

Foto di Adriano Sofri
      

L’estate scorsa avevo fatto amicizia, insieme a Slava e a Nello, con Oleksandr, un fotografo impegnato nella stampa libera di Kherson che gli occupanti russi avevano preso di mira e costretto a rintanarsi ogni notte in un luogo diverso, finché era riuscito ad arrivare a Odessa, padrone soltanto di maglietta calzoncini e sandali che aveva indosso – e nemmeno una macchina fotografica. Venerdì c’era anche lui al mercato di Kherson, se ne è allontanato un minuto per scendere in un sottopassaggio, e quando è risalito ha trovato la strage. Il calendario è implacabile. 15 dicembre: Kherson bombardata più di 16 volte. 17 dicembre: Kherson bombardata 54 volte, 4 civili uccisi, 9 feriti. 18 dicembre: alle 15 sono già avvenuti 12 bombardamenti, 2 civili morti, 4 feriti. 19 dicembre: Kherson bombardata 70 volte in 24 ore. E così via.

 

Di Kherson, come di tanti altri posti più o meno noti, più o meno sconosciuti, delle cronache di questa guerra, si legge che ha una posizione strategica. Ma è vero. Mykolaiv, dal punto di vista dei russi invasori, era la porta d’accesso a Odessa e alla rapina del Mar Nero all’Ucraina. Kherson, dal punto di vista della controffensiva ucraina, è la porta d’accesso alla Crimea, e il centro sull’estuario del Dnipro, ad appena 30 chilometri dalla foce

   

Foto di Adriano Sofri  
      

L’amministrazione cittadina aveva avuto vicissitudini drammatiche. Il sindaco rapito dai russi, e non se n’è saputo più niente, un ex sindaco venduto ai russi e nominato governatore, avvelenato dal suo cuoco (!), un vicesindaco appena arrestato per collaborazionismo... Il sindaco attuale è una signora di 48 anni, Galina Lugova, la incontriamo nella sede – segreta, speriamo che lo resti – del comune e del governo militare. Ha due figli grandi, insegnava inglese, era anche direttrice della scuola, unica nel suo genere in Ucraina: la scuola “verde” di Antoniivka, 210 alunni, costruita coi fondi finlandesi. E’ cordiale ed efficace, spiega che siccome era segretaria del Consiglio comunale, è subentrata per legge al sindaco espatriato, e ora è tre cose: segretaria del Consiglio, sindaca e responsabile militare. Dice delle difficoltà dell’evacuazione per le persone più deboli, vecchi, invalidi. Dice che i russi bombardano tutto con ogni mezzo: Grad, granate, droni, proiettili di mortaio, missili... Che lei e i suoi lavorano sottoterra, accolgono tutti ma devono guardarsi dalle spie. Ha una vice, Dina, più giovane, due figlie, insegnava letterature straniere a Mykolaiv... Qui non siamo vicino al fronte, dicono: siamo il fronte.

 

Andiamo per la città. A metà giornata è deserta e desolata. Il mercato ha appena chiuso. I pochi passanti sono anziani. Alla chiesa cattolica c’è un gruppo di ragazzini. Uno si mette in posa, si è procurato una canna di bazooka, mi mostra come si usa. Nella vasta piazza del governo un uomo vecchio come me e zoppo col colbacco e la giacca di pelle nera mi apostrofa: venite qui a metterci in mostra e i russi ci bombardano sempre di più! e se ne va inveendo. Una signora vecchia come me che sta aspettando un autobus si tocca la fronte per dire che la testa non è buona e siccome le porgo la mano mi abbraccia e bacia. Kherson, finalmente. 

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