sul fronte del sud

Kherson è libera. Cosa cambia nella guerra in Ucraina

Micol Flammini

Gli ucraini entrano nella città occupata e iniziano a fare i conti per il dopo. La guerra non è finita, ma i soldati si segnano una data storica: 11.11.22. La Russia cerca di arrivare al G20 con la faccia pulita

Prima il ministero della Difesa russo ha annunciato la fine del ritiro dalla città di Kherson, i soldati di Mosca hanno fatto saltare i ponti alle loro spalle e si sono chiusi sulla riva sinistra del fiume Dnipro. Poi, le truppe ucraine sono entrate in città, con una velocità che ha sbalordito tutti e che rende la giornata di ieri storica più di ogni conquista precedente: 11.11.22, ha scritto Andri Yermak, uno dei collaboratori più stretti del presidente Volodymyr Zelensky, facendo risaltare la simmetria numerica degna della data indimenticabile.  Kherson era piena di manifesti con la scritta   “la Russia è qui per sempre”, affissi prima del referendum fasullo di annessione e che ieri sono stati rimossi liberando  le strade da quel motto frettoloso e nefasto, e a febbraio era caduta a causa di un tradimento: talpe nei servizi segreti locali non avevano eseguito gli ordini di Kyiv, non avevano fatto saltare i ponti e avevano indicato all’esercito di Mosca come arrivare evitando i campi minati, quasi senza combattere. Era la ferita, la frattura dentro all’Ucraina, il tradimento che piaceva al Cremlino e che i servizi di Mosca speravano di trovare ovunque.  A Kherson la Russia aveva fatto grandi piani e schierato soldati di professione,  le truppe d’élite, ma gli ucraini avevano tagliato loro le linee di rifornimento e reso insostenibile la permanenza. Rimanere sarebbe stato impossibile e sarebbe costato il sacrificio di troppi uomini, che Mosca ora potrà dispiegare per rafforzare le linee difensive, in attesa dell’inverno. 

 

 

La richiesta di lasciare la città era arrivata dai generali russi, che avevano anche chiesto di stilare un manuale propagandistico da usare per spiegare la ritirata al pubblico,   nel caso in cui si fosse concretizzata. Il consiglio era di descrivere l’Ucraina come una nazione assetata di sangue e sorda alle richieste di pace, il presidente Vladimir Putin come magnanimo e preoccupato per la vita dei suoi soldati. Kyiv non andava dipinta come il nemico, ma come il mezzo del vero nemico, che i propagandisti dovevano identificare con l’“occidente collettivo” e con la Nato. Perché un conto è attaccare l’Ucraina, un conto è resistere alla potenza dell’Alleanza atlantica. Da mesi quest’idea del ritiro necessario e responsabile aveva iniziato a dominare i talk-show russi, e quello che arriva prima nella propaganda sbarca poi anche nelle decisioni del Cremlino. Anche l’attacco del 24 febbraio, giorno di inizio dell’invasione, era stato prima anticipato in televisione con una serie di paragoni storici e accuse di genocidio contro l’Ucraina. 

 
  
Gli ucraini festeggiano, il presidente Zelensky ha dedicato la vittoria a tutti, anche ai suoi alleati – senza i lanciarazzi americani Himars  non sarebbe stato possibile isolare le truppe russe – ma oltre alla gioia per la liberazione, rimane anche lo stato d’allerta: la guerra non è finita. Il territorio andrà setacciato e sminato, le trappole potrebbero trovarsi ovunque, in giro per Kherson sarebbero rimasti dei sabotatori, soldati vestiti in borghese e armati, pronti a mescolarsi tra la popolazione, di cui è uscita anche qualche immagine un po’ troppo esplicita. Bisognerà fare i conti con chi ha accolto i russi e con la possibilità che qualche talpa sia sfuggita all’intelligence ucraina passata al setaccio da Zelensky.

 

In Russia il presidente Vladimir Putin tace. Al portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov,  è stato chiesto se la ritirata non sia un’umiliazione per Mosca, e  lui, sicuro, ha risposto di no, perché la Russia è ancora lì, Kherson è ancora russa. Sono altre però  le parole che si sentono pronunciare sempre di più dagli ambienti diplomatici russi: negoziati, colloqui, dialogo. Il viceministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov, ha detto che Mosca è aperta al dialogo senza condizioni, una frase mai pronunciata finora. La prossima settimana a Bali ci sarà il G20, Putin non sarà presente, ma la sua delegazione cerca di arrivare al vertice con la faccia più pulita possibile, per sedersi e parlare ai tavoli internazionali, da pari a pari e non da paria, e usare le parole: negoziati, colloqui, dialogo con credibilità. Se con la ritirata disordinata dei soldati russi, che sa di resa, Kyiv inizia a scongiurare la trappola militare, si insinua il dubbio di un altro genere di imboscata: una trappola diplomatica. I vertici americani parlano con insistenza di soluzioni diplomatiche e secondo il New York Times, il capo di stato maggiore, Mark Milley, avrebbe detto che Kyiv ha ottenuto quanto poteva ragionevolmente aspettarsi sul campo di battaglia prima dell’arrivo dell’inverno e quindi dovrebbe cercare di cementare i suoi guadagni a il tavolo delle trattative. Gli ucraini  sanno che con i ritiri Putin li ha spesso ingannati: poi torna.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.