ritorno al 2014

Dove è finito Vladimir Putin?

Micol Flammini

Dopo aver minacciato e sbraitato sulla difesa dei confini della Russia, con l'annuncio del ritiro da Kherson il presidente russo è scomparso. Il comando della guerra ai generali e gli occhi sulla tregua

Il 4 novembre in Russia si celebra la festa dell’unità nazionale e il presidente Vladimir Putin aveva partecipato a una serie di incontri. Era stata una giornata piuttosto impegnativa e si era conclusa con un suo discorso storico, mentre parlava aveva alle spalle una mappa della Russia molto grande. Non era la solita nazione che siamo abituati a considerare,  era “aggiornata”: comprendeva i territori occupati dell’Ucraina che Mosca ha annesso a fine settembre dopo un referendum farsa che ha valore soltanto per il Cremlino. Su quella mappa, c’era anche la città di Kherson, l’unico capoluogo regionale conquistato dall’esercito russo dall’inizio dell’invasione, e dal quale il ministero della Difesa ha ordinato un “ritiro immediato”. 

 

Sono quattro le oblast che sono state annesse e per celebrare la loro unione alla Russia, Putin aveva accolto i loro governatori al Cremlino. Durante la cerimonia, con foto di rito con  mani unite a simboleggiare l’inossidabile legame fra tutte le Russie, Putin aveva detto che le autorità di Kyiv e “i loro veri padroni in occidente” avrebbero dovuto ascoltarlo per bene e ricordare che “le persone che vivono a Luhansk e Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia sono nostri cittadini. Per sempre”. Aveva anche sottolineato che avrebbe fatto di tutto per difendere i suoi territori  nei confini della Russia,  quella di ieri e quella di oggi, con ogni risorsa. L’annuncio del ritiro da Kherson è clamoroso – la cautela che gli ucraini e i loro alleati stanno manifestando è ragionevole – e contraddice una delle promesse del presidente russo di prendersi cura delle sue frontiere. Dopo aver sbraitato e minacciato per settimane, quando  il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, e il generale  Sergei Surovikin hanno annunciato  il ritiro,  il presidente non ha parlato e  tutti continuano a domandarsi  come possa accettare l’abbandono di una città strategica e simbolica. Putin ha trascorso la giornata di mercoledì in eventi che nulla avevano a che fare con la guerra e ieri né un commento, né un cenno: è tornato nel bunker in cui si rifugia ogni volta che è in difficoltà e che gli è valso il nomignolo di “nonno nel bunker” o, in alternativa, “il bunkerato”. 

 

I rapporti che arrivano dalle regioni occupate parlano di problemi con la corrente, di una grande confusione sulla moneta, di problemi con la sim da inserire nei telefoni e di funzionari che non si trovano: molti hanno paura di essere uccisi. Il motto utilizzato da Mosca in questi territori, illustrato da manifesti e bandiere, era “la Russia è qui per sempre”, ma  questi mesi non sono stati  promettenti. Per quanto Putin dicesse di tenere a quei territori, non ha mai dimostrato una particolare cura nei loro confronti.

 

Dall’inizio dell’invasione, l’intelligence britannica e fonti interne all’esercito russo avevano raccontato che Putin dirige le operazioni sul terreno e svolge compiti che di solito appartengono a   un colonnello o comandante di brigata: se la gestione è pessima, dicevano questi resoconti, la colpa è tutta di Putin. Da alcune settimane i generali chiedevano una riorganizzazione a Kherson e alcuni funzionari erano stati incaricati di redigere un manuale per preparare il pubblico a un eventuale ritiro. Putin aveva sempre opposto resistenza e il fatto che si sia lasciato convincere potrebbe indicare che ha finalmente capito che la guerra va lasciata ai generali. Per questo sarebbe scomparso, avrebbe lasciato a loro la responsabilità dell’annuncio amaro e la futura gestione della guerra che, dal punto di vista anche dei più falchi, per essere portata avanti va riorganizzata e va trovato il tempo per farlo. La ritirata da Kherson può essere venduta anche sul piano internazionale come gesto di buona volontà nei confronti dell’Ucraina, che possa portare a una tregua. Questo è il timore di Kyiv: che i suoi alleati si accontentino e aprano a una tregua che consentirà alla Russia di riorganizzarsi e, con linee diverse e forze invertite, potrebbero riportare il paese al 2014, quando la guerra nel Donbas si fece a bassa intensità, con violazioni di cessate il fuoco, negoziati fiacchi e una Russia che dopo qualche rimbrotto continuava a essere un partner  per l’occidente. 

 

Putin lascia che siano gli altri a gestire la situazione, a fare annunci  sgradevoli, a parlare di tregua, di colloqui, di negoziati, a contraddire le sue promesse. Non andrà neppure a Bali al vertice del G20, dove addirittura aveva detto che sarebbe stato disposto a incontrare il presidente americano Joe Biden. Se ne starà per un po’ nel bunker a curare la sua trasformazione da condottiero a presidente che vuole la pace. 
 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.