La guerra lunga

Otto mesi di torture e pressioni: cosa raccontano i testimoni di Kherson

Paola Peduzzi

La città ucraina appena liberata, soprannominata dai sopravvissuti “della paura”, fa i conti con l’orrore lasciato dai russi

Passata la festa, le bandiere, gli abbracci, l’inno, le lacrime, Kherson fa i conti con l’occupazione russa, durata otto mesi. E’ un rito tragico che abbiamo visto in ogni città liberata e che non ha troppo a che fare con il tempo con cui l’esercito di Vladimir Putin ha occupato un certo territorio ucraino: a Bucha e a Irpin, i russi stettero poco, usarono una brutalità inaudita e per la prima volta, una volta ritiratisi, scoprimmo la scia di morti, torture ed esecuzioni che si lasciarono alle spalle. Nei racconti di Kherson che emergono inesorabili quel che colpisce è lo sforzo  che gli abitanti hanno dovuto fare per abituarsi alla ferocia come metodo quotidiano di governo: chiunque poteva sentire le urla dei torturati, ha raccontato un sopravvissuto. 

 

Secondo le prime testimonianze, Kherson potrebbe conquistare il primato dell’orrore delle torture: “Ciò che pare evidente è che qui i russi hanno gestito un sistema di detenzione su una scala che ancora non si era vista in altre città liberate”, scrive il Washington Post. Tutti cercano qualcuno che è scomparso: chiedono aiuto ai giornalisti o ai soldati ucraini, indicano un palazzetto di tre piani in una zona residenziale di questa città che prima della guerra ospitava 300 mila persone: era il centro  principale delle torture. Alcuni sono stati arrestati perché accusati di essere dei combattenti, altri perché avevano tatuaggi ucraini, indossavano abiti tradizionali o si erano fatti dei selfie vicino alle truppe russe o avevano osato dire “Slava Ukraïni”. Anche il sindaco della città è scomparso. Oleksandr Kuzmin, un signore di sessantaquattro anni e lo sguardo fiero, ha raccontato di essere stato dentro al centro delle torture per un giorno: gli hanno spaccato una gamba con un martello perché aveva combattuto contro i separatisti del Donbas, otto anni fa. Le forze russe cercano e puniscono sempre gli uomini che hanno avuto esperienze militari e chiedono, sotto tortura, di fare i nomi di altri. Kuzmin ha raccontato che in una stanza sotto la sua cella sentiva gli urli e i gemiti di altri detenuti: ha parlato con uno di loro che era finito lì perché aveva aiutato alcune persone a trovare banconote della valuta ucraina, che la Russia voleva sostituire con il rublo. Poi gli hanno attaccato i cavi elettrici.

 

Otto mesi di occupazione significa convivere con questa brutalità e con i cartelloni con su scritto: questa sarà Russia per sempre. Il Cremlino ha annesso questa zona con i referendum farsa anche se ne controllava soltanto una parte e da tempo tratta il territorio come se fosse russo, mettendo come condizione alla sopravvivenza il fatto di rinunciare al passaporto ucraino. A Kherson questo modello di annessione di fatto fa ancora più impressione perché questa era una città filorussa prima dell’invasione, anzi era il posto in cui più di tutti i russi si aspettavano un’accoglienza se non festosa almeno sottomessa: per molti anni i collaboratori di Putin gli hanno rivenduto il modello Kherson come il paradigma della conquista dell’Ucraina senza dover muovere l’esercito. Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha detto che ci sono stati almeno 400 casi di crimini contro l’umanità in questo distretto: la chiamavamo la “città della paura”, ha detto un sopravvissuto, che non sapeva quante ce ne fossero di città così nell’Ucraina attaccata da Putin.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi