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piccola posta

Altro che postfascisti. La Russa appartiene a un mondo che non se n'era mai andato

Adriano Sofri

Meloni e il nuovo presidente del Senato aderivano a una visione che edulcorava il regime di Putin - corpo a corpo con l’orso, a letto con Berlusconi, amico di Brigitte Bardot e dei cuccioli di foca - un po’ come si è fatto con quello di Mussolini

Postfascisti, prefascisti… Una storiella della mia infanzia: un tale entra in un bar e ordina un cappuccino. “Subito un cappuccino al signor pompiere!”, dice il barista. “Grazie. Ma come ha fatto a capire che sono un pompiere?”. “Mah, un po’ tutto l’insieme, il tono, lo sguardo, e poi la tuta, l’elmetto, l’idrante…”. Ecco: come si fa a capire che Ignazio La Russa è fascista? Ma La Russa non rappresenta affatto il pericolo di un ritorno del fascismo. Rappresenta a suo modo il fascismo che non se n’è mai andato, e che dopo aver provato a rimettere in auge la veste classica perpetuata nella Spagna franchista, nel Portogallo salazarista, o rianimata nella Grecia dei colonnelli, fino a tutti gli anni 70, diciamo, si è poi variamente convertito.

Nel caso di La Russa, nella caricatura. Che proprio per la sua spensierata frequentabilità confermava l’idea cara a una maggioranza di italiani di un fascismo da commedia, alieno dalla tragedia se non per nefaste influenze esterne. E’ quella caricatura che finalmente si è messa a capo del Senato della Repubblica, dopo averla fatta transitare per una lustra sequela di cariche. E’ simpatico, guida la visita domestica agli altari di cimeli fascisti e nazisti ma ci scherza su: vedete, il fascismo è finito, dunque anche l’antifascismo. 

Penso che non siano postfascisti, penso piuttosto che siano prefascisti – ho scritto. Sull’Europa in particolare, che è l’ambito essenziale di esercizio delle scelte politiche, incombe una traumatica rottura della abitudine alla democrazia. La guerra mossa dalla Russia all’Ucraina infedele ha questa posta. Alla presidenza della Camera dei deputati la vasta maggioranza di destra ha messo un uomo i cui pensieri sulla vita e la convivenza somigliano a quelli del patriarca Kirill. Quest’uomo – giovane, come Meloni, non ha fedeltà personali o famigliari cui obbedire – è oggi moderatamente favorevole all’indipendenza ucraina, perché non può farne a meno, e perché l’altro faro della sua condotta, la dirigenza nazionalista bigotta della Polonia, è strenua nemica dell’imperialismo russo e fautrice della resistenza armata ucraina. Complicazione che ha portato a rompere provvisoriamente l’alleanza fra Polonia di Mateusz Morawiecki e Ungheria di Viktor Orbán, senza peraltro incidere sulla comune convinzione di una degenerazione delle libertà occidentali, affine a quelle di Kirill e di Putin. 

Intanto in Svezia si firmava l’accordo sul nuovo governo di destra, con il determinante appoggio esterno del partito “di ultradestra” (a quali acrobazie lessicali costringe oggi questa discarica di destre) di Jimmie Åkesson, che si chiama serenamente Democratici svedesi, e ha tolto già da 16 anni dal suo simbolo una torcia – la sua fiamma, il mondo è piccolo – e ha addolcito il suo profilo esplicitamente nazista e razzista, tenendo ben ferma la xenofobia. Un po’ più in là, la Bielorussia, un pezzo d’Europa in cui il dittatore, Aljaksandr Lukasėhenka, è “presidente” da 28 anni: un record che emula quelli africani. E che si spiega con una repressione violenta su una gran parte, probabilmente una maggioranza, della popolazione. Lui ce l’ha fatta, ed è ora l’attendente di Putin: Yanukovich in Ucraina non ce la fece, ed è ora l’attendente disoccupato di Putin.

E così via. La predilezione ostentata di Giorgia Meloni – e dei suoi colleghi polacchi, e di Orbán e Le Pen – per l’estrema destra neofranchista di Vox, mostra come l’europeismo, inteso come apertura, investimento in una legislazione internazionale, solidarietà, sia un campo minato. Meloni ebbe la sua devozione alla presunta efficacia dell’autocrazia putiniana, e del resto l’edulcorazione dell’immagine del fascismo coltivata metodicamente in Italia, a lungo contrapposta all’edulcorazione dell’immagine del comunismo sovietico perseguita a sinistra, è poi trapassata senza ostacoli nell’edulcorazione del regime putiniano. Putin stava, meraviglia delle meraviglie, al passato del totalitarismo staliniano come un simpatico La Russa: corpo a corpo con l’orso, a letto con Berlusconi, amico di Brigitte Bardot e dei cuccioli di foca. Non era il genocida di Cecenia infastidito dall’esistenza in vita di Anna Politkovskaja, era il nostro ospite a Villa Certosa e alla Maddalena, Apicella alla chitarra e la Moskva alla fonda. La minimizzazione, l’edulcorazione, l’anestetizzazione – in realtà, la falsificazione: ha una grande parte nella storia del comunismo reale, e l’Ucraina è un ultimo capitolo, enorme, di quella storia imperterrita. Di Hitler non si poteva ridere: di Mussolini sì, e anche di Stalin. Quanto a Putin, era il nostro compagno di barzellette.

L’occidente è rotto. Oggi Giorgia Meloni è la garante di una prosecuzione dello schieramento italiano con Europa, Nato e Usa al fianco dell’Ucraina, che senza di lei andrebbe precipitosamente in frantumi: armi, sanzioni, contratti. Gli Usa sono, pro tempore, i democratici di Biden. Ma già l’Europa e l’Italia “profonde”, come si dice, sono trumpiane. Il loro occidente è quello che Donald Trump rivelò platealmente, facendo vacillare dalle fondamenta l’idea immaginaria di occidente. Che ora è solo un’opzione, fragile, effimera, vulnerabile. Un bilico che può precipitare di qua o di là. 

In un simile paesaggio la destra italiana, vincitrice di elezioni che gli altri hanno perso mettendocela tutta, mostrerà la sua tempra. L’occasione fa l’uomo ladro. Quali che siano gli svolgimenti del terremotato paesaggio europeo e mondiale, non sarà il vecchio fascismo a battere i tacchi. Sarà la tentazione dell’efficienza di un governo insofferente di controlli e ritardi, della stretta sulla libertà delle persone di disporre di sé, cioè del proprio corpo, della volontà di umiliazione degli stranieri, della voluttà di essere “padroni a casa propria”, cioè di essere padroni, della voglia di darsi al più forte. Se questa sarà la scena prossima, le attrici e gli attori che l’Italia della nuova maggioranza di destra sta mettendo in campo sono promettenti. Non quali postfasciste, ma quali prefasciste. “Sono pronte”. 

Per finire, ora. Le mie due frasette di ieri hanno ottenuto l’attenzione dell’organo quotidiano di Fratelli d’Italia, il Secolo d’Italia, che non ha badato a spese. “La sinistra terrorista fa la morale. Adriano Sofri, mandante del delitto Calabresi, teme i ‘prefascisti’…”. Il resto potete leggerlo, se volete: mi attribuisce di aver detto così per vendicarmi di La Russa che aveva richiamato alla memoria il commissario Calabresi – “l’ispettore Calabresi”, aveva detto. Naturalmente, non mi era nemmeno passato per la testa. Per giunta, io non sono e non sono mai stato terrorista. Non sono mai stato mandante di delitti. E siccome non sono stato accusato giudicato e condannato dalla destra postfascista, i miei nemici stanno indimenticabilmente in ogni punto della composizione politica e umana. 

E’ molto stupido ignorare la mia parola, benché possa essere piacevole. Ogni volta che lo si fa, si commette un imperdonabile delitto. Oltre a non capire niente di quello che dico.