Con Meloni torna in voga la parola “nazione”, ma non è chiaro a cosa si riferisca

Giovanni Belardelli

Tutte le democrazie sono nate e si sono sviluppate nel contesto di stati nazionali, e tuttavia in Italia e in altri paesi europei si è affermata nel mainstream culturale un’idea di democrazia che considera i cittadini quali membri di una cosmopoli democratica. Storia di un equivoco irrisolto

Non si può non notare che Giorgia Meloni, nei suoi discorsi e nelle sue affermazioni pubbliche, utilizza spesso la parola “nazione” per riferirsi a ciò che più comunemente viene da tempo definito come “paese” (o il “nostro paese”). Si tratta di una parola abbastanza desueta nel linguaggio comune, il cui impiego avrà meravigliato qualcuno e indotto magari qualcun altro a collegarla alla tradizione politica da cui la probabile prossima presidente del Consiglio proviene, quasi che il termine abbia una chiara connotazione di destra. Non è esattamente così.

 
Anzitutto va ricordato che la parola veniva utilizzata senza problemi nella nostra Costituzione (e pure con la maiuscola), ad esempio nel fondamentale art. 67: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ben presto si trovò però a essere impiegata sempre meno, soprattutto perché molti la mettevano in relazione con l’uso e l’abuso che ne aveva fatto il fascismo e le preferivano dunque il termine “paese”. La parola nazione e l’insieme di simboli che con essa avevano a che fare, in primis il tricolore, abbandonati dagli uni venivano monopolizzati dagli altri, cioè dalla destra missina e monarchica. Ma non ci fu solo questo a emarginare la nazione, come parola e come insieme di concetti e valori a essa collegati. 

 
A partire dagli anni Sessanta, la modernizzazione italiana legata al cosiddetto miracolo economico e il benessere che ne doveva conseguire in termini di accesso a nuovi beni di consumo e nuovi stili di vita ebbero un carattere essenzialmente non-nazionale (si è parlato fino alla noia di una American way of life che si affermava anche in Italia). Quella modernizzazione e quel benessere favorirono anzi – secondo qualche storico – un processo di vera e propria snazionalizzazione e dunque fecero in modo di rendere ancora meno utilizzato il concetto di nazione, che veniva così espulso “dall’orizzonte dei valori civici degli italiani” come osservò trent’anni fa Gian Enrico Rusconi in un libro dall’eloquente titolo Se cessiamo di essere una nazione. Con la cosiddetta seconda Repubblica le cose parvero cambiare: che si trattasse del nome del partito fondato da Berlusconi, Forza Italia, oppure dell’insistenza del presidente della Repubblica Ciampi su temi, simboli e riti dell’identità nazionale, l’intero campo semantico della nazione sembrò incontrare una nuova diffusione e un nuovo apprezzamento. Ma forse solo in superficie, visto che tanti insegnanti, giornalisti, opinionisti progressisti guardavano invece con crescente sospetto a tutto ciò che aveva a che fare con l’identità e le radici nazionali, considerate come l’anticamera del nazionalismo prevaricatore e razzista. 

 
Tutte le democrazie sono nate e si sono sviluppate fino a oggi nel contesto di stati nazionali, e tuttavia in Italia e in altri paesi europei si è affermata nel mainstream culturale un’idea di democrazia che considera i cittadini quali membri – più che di uno specifico stato nazionale, considerato una forma istituzionale non solo obsoleta ma anche pericolosa – di una cosmopoli democratica, di una democrazia dei diritti dell’uomo che abbraccerebbe l’intero globo. Questa visione, che è stata quasi il pendant ideologico della globalizzazione economico-finanziaria, è entrata in crisi da qualche anno anche in conseguenza dei processi di ridimensionamento della globalizzazione stessa. Già a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, Marcel Gauchet aveva criticato una democrazia che veniva identificata con una nuova religione dei diritti umani; più di recente nel mondo anglosassone, dove aveva avuto molta fortuna l’idea di una “democrazia cosmopolita”, di una “cittadinanza denazionalizzata” e così via, vari studiosi hanno riscoperto o rivalutato la nazione come concetto intrinseco alla democrazia, espressione di un bisogno di appartenenza e di protezione di cui forse le élite globalizzate possono fare a meno, non così le persone comuni. Anche Martha Nussbaum, tra le più note sostenitrici di una democrazia cosmopolita, è ritornata di recente sulle sue posizioni, definendo in un libro del 2019 il cosmopolitismo come un ideale nobile ma “fallace” e rivalutando il ruolo della nazione nel garantire libertà e diritti individuali.

 
Dunque, i riferimenti alla nazione di Georgia Meloni si potrebbero collegare, magari senza che l’interessata ne abbia consapevolezza, a questa generale e recente riscoperta della nazione? La cosa non è così semplice, perché – come qualunque libro sull’idea di nazione spiega – di quel concetto sono possibili accezioni diverse, molto semplificando almeno due. L’una, che possiamo ricondurre a Mazzini o a Renan, insiste sul carattere democratico di una nazione che si fonda su tradizione, lingua, valori comuni, ma soprattutto sulla volontà di farne parte per libera scelta (secondo la famosa metafora utilizzata da Renan del “plebiscito di tutti i giorni”). L’altra insiste invece sugli elementi di tipo etnico, se non addirittura razziale, e su una tradizione che è concepita più che come un insieme di valori in evoluzione, come un dato oggettivo e immutabile. Non è del tutto chiaro a quale dei due concetti di nazione si riferisca Meloni. Ma certo alcune sue posizioni potrebbero far ritenere che non segua del tutto il primo: ad esempio la proposta fatta in passato di un blocco navale per fermare l’immigrazione lascia intravvedere l’idea di una nazione serrata nei suoi confini, chiusa e indisponibile a quei nuovi apporti che una concezione democratica della nazione non esclude affatto. Ma dobbiamo tutti sperare di essere smentiti.