Un romanzo famigliare per indagare sull'amore tra madre e figlie

Adriano Sofri

“In compagnia della tua assenza”, di Colette Shammah

Colette Shammah è stata una bambina di pochi anni e di tre sorelle, che faceva la guardia al sonno pomeridiano della sua madre favolosa. Poi la porta si apriva e la madre era stupita e felice di trovarla lì, e la stringeva a sé. A distanza di tantissimi anni qualcosa è irreparabilmente consumato – “mamma non ride più!” – e questa figlia l’asseconda e vigila sul suo ultimo sonno, ancora una volta al suo posto. Dopo, spaventata di non vederla più, va in cerca di lei, lontano nel tempo e nei luoghi, nella Persia in cui la madre fingeva di esser nata, nella Siria in cui era nata davvero… Per stare “in compagnia della tua assenza” – è il titolo del libro, un romanzo vero, appena cambiati i nomi. Solo la madre conserva il suo, era ed è Sophie. Una sorella, Andrée, è Vigée, è suo il nome assente che la madre invoca per ultimo e Colette, generosa, registra.

  

Chi non conosce Andrée Ruth Shammah. Io non posso dire di conoscerla bene, ma siamo amici. Il 16 luglio ero a cena da lei, in campagna, all’aperto, in una posizione felice per guardare l’eclisse parziale di luna. La compagnia era numerosa e allegra, lodare una pietanza faceva torto alla prossima, è successo che si evocasse la storiella sulla madre ebrea. Io me la ricordavo male, con le due camicie. Andrée ha rettificato, le due cravatte. La madre ebrea regala al figlio che compie gli anni due cravatte. Il sabato il figlio va a cena dalla madre con la cravatta nuova. Lei lo vede ed esclama: “Lo sapevo, l’altra non ti è piaciuta” (raccomanda Daniel Vogelmann: “Le barzellette ebraiche dovrebbero essere raccontate solo dagli ebrei, se le racconta un non-ebreo rischiano di diventare subito antisemite”). Sulla scia, Andrèe ha evocato “Les méres juives” di Moustaki, che incorpora la barzelletta – Je t’ai acheté deux cravates/Tu as mis la bleue avec des pois/Quand tu es venu pour le shabbat/Pourquoi?L’autre elle ne te plaît pas? – e siccome qualcuno non la sapeva, ed è bellissima, l’abbiamo ascoltata col telefono. E poi la conversazione è deragliata in una gara di canzoni francesi, e lì Andrée e io possiamo competere, e ci siamo accordati su Barbara e l’abbiamo regalata, o inflitta, ai commensali; l’ho detto, una sera allegra e lunatica. Così non ho pensato che Andrée aveva avuto una madre ebrea, che è lei stessa una madre ebrea.

 

In quel poco che so di Andrée, e della sua cavalleresca e intrepida difesa degli inseguiti, figurava suo padre, e a lui la associavo. Dunque Andrèe ha tre sorelle, una in più di Cechov o della generalessa Epancina, e si chiamano Suzy, Claudia e Colette, e Colette ha scritto il libro. Su sua madre e su di sé, e anche un po’ sulle altre, con nomi mutati: Esther lei, Vigée è Andrée, Aline è Claudia e Suzy è Victoria. Esther, che ha accettato di partecipare del desiderio di lei, d’esser lasciata morire, le dice ora: “Sai mamma, non ho mai avuto paura della mia morte, mentre ho sempre avuto paura della tua… Ricordo quando le mie sorelle mi prendevano in giro perché già a tre anni piangevo all’idea che un giorno tu dovessi morire. Aline, stufa di consolarmi, mi diceva: ‘Senti… smettila di piangere adesso, lo farai quando morirà, lo farai dopo, ora lascia perdere”. Victoria, la sorella che forse non ha letto il libro – dunque Colette/Esther non glielo ha chiesto? – in un suo sogno immaginario si libera dal proprio senso di colpa scoprendosi abbandonata: non c’è senso di colpa più schiacciante di quello provocato dalla colpa altrui (non è questo Franz Kafka e il suo grosso padre?). Vigée, un po’ come mi ero figurato, dice: “Io sono uguale identica a mio padre”. “Eppure qualcosa avrai preso anche da me…”, protesta la madre. “Eri prepotente. E sportiva. Guidavi l’automobile, il motoscafo. Eri sempre elegante. E distante”, accusa la figlia. “Sono venuta a spolverare le sedie del tuo teatro, una a una”, dice la madre. Vigée non era con lei che moriva, non voleva, si è presa un’altra parte, è quella che ha “tenuto tutto, anche la casa in montagna”, così come lei l’ha lasciata, conserva le fotografie dei nonni, cappelli, berretti, sciarpe, case… Pensa che i morti tornino nei loro luoghi, in altre forme.

 

La donna seducente che è stata la madre aveva sognato “l’Italia, per la musica, la letteratura, la gente amichevole”, e Milano è alla fine diventata la sua città. Prima ha dovuto fuggire per mettersi in salvo più volte, dalla Versailles dov’era andata sedicenne a studiare alla vigilia dell’arrivo dei tedeschi, da un’avventurosa Marsiglia alla volta di Beirut, dalla Aleppo in cui l’ebraismo antichissimo era stato da un giorno all’altro braccato – la Aleppo che oggi cessa di esistere. Ricorda, una delle sorelle, e ancora un po’ gliene vuole, che anche nel momento di fuggire la madre si attarda a prender su una grande bambola – portavi il peso della bambola invece di prendere in braccio me – o a truccarsi, e però ora sa rispondersi in nome della madre, che anche quando si perde tutto bisogna portare con sé un po’ della bellezza, che impiegare il tempo dell’attesa di un’ambulanza per rifare il trucco non è fatuo, è sensato e coraggioso. Scrivere, come fa Colette, è anche questo rispondere a nome della madre che non può farlo più e che forse non l’avrebbe mai fatto, perché c’è un tempo per la comprensione delle cose e perché le persone si capiscano. Della madre “non sempre capìta, e anche dalle figlie solo molto tardi. In quale pozzo fossero finite le sue lacrime non lo sapeva nessuno…”. Esther/Colette non sa se è stata davvero la preferita, si è ritagliata quel ruolo, del resto tutte si sono sentite la preferita, “come le fidanzate di don Giovanni”. “Viva la gelosia!”.

   

Sophie è la coraggiosa, generosa, affascinante protagonista, la conquistatrice. Il padre, Albert, qui si chiama Maurice e vive altrove, per così dire. Bellissimo era stato il primo loro incontro. Maurice, che ha dieci anni di più e già va per il mondo, in Giappone, a Bombay, e accumula riuscite e soldi, torna ad Aleppo e viene avvertito da una sorellina che c’è una nuova insegnante meravigliosa, la più bella del mondo, e “parigina”. Decide un sopralluogo. La aspetta all’uscita dalla scuola, si presenta, è toccato dalla sua bellezza e però anche interdetto dalla sua imperturbabilità, sente di dover fare qualcosa che le faccia colpo e, chissà perché, tira fuori dalla tasca una Parker d’oro che ha comprato a Hong Kong e che ad Aleppo è sconosciuta, e gliela mostra: “L’ha mai vista?” E’ imbarazzante, e per giunta lei gli risponde, calma: sì, l’ha vista a Parigi (forse non l’ha vista, ma ne ha saputo da un amico carissimo, cui la Parker d’oro era stata rubata dai compagni filonazisti). Maurice rimette la penna nel taschino, ma non importa, si vedranno fra una settimana, si sposeranno fra poco.

  

Colette Shammah, “In compagnia della tua assenza”, La nave di Teseo, 2018.

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