"Maria Stuarda" al Teatro Nazionale di Genova (ph. Alberto Terrile) 

A teatro

Sul palco a Genova un derby a distanza tra il Berlioz di Michieletto e lo Schiller di Livermore

Alberto Mattioli

In due giorni si sono viste la prima di Béatrice et Bénédict  al Carlo Felice e l’ultima di Maria Stuarda al Nazionale. Certo, la prima è opera, ma opera "da regista", e la seconda rigurgita potenza drammaturgica. E il confronto fra i due registi emoziona fino all'ultimo minuto

Intanto, nel fine settimana, c’è stata la possibilità di vedere, cotti e mangiati uno dopo l’altro, i nuovi spettacoli dei due registi teatrali italiani più interessanti e scritturati, Damiano Michieletto e Davide Livermore. Succedeva a Genova, città dove ultimamente, oltre al pesto e alla focaccia, c’è roba da fare (è anche in corso una notevole mostra su Rubens stanziale in città all’inizio del Seicento, quando Genova era una Wall Street piena di Gordon Gekko con il gusto del bello). In due giorni si sono viste la prima di Béatrice et Bénédict di Berlioz al Carlo Felice (Michieletto) e l’ultima di Maria Stuarda di Schiller al Nazionale (Livermore), che però adesso parte in lunga tournée. Certo, una è opera e l’altra prosa, però l’opera è in realtà un’opéra-comique dove si recita quanto si canta e lo Schiller livermorizzato è quasi un’opera, data la quantità di musica che ci si ascolta.

 

Iniziamo da Berlioz. Se c’è un’opera “da regista” è appunto B&B. La musica è bellissima, di una freschezza stupefacente per un compositore che all’epoca era fisicamente devastato e psicologicamente depresso. Però Berlioz sbagliò clamorosamente il libretto, perché tolse a Molto rumore per nulla non solo la componente “nera” che pure c’è, ma anche dei pezzi d’intreccio che rendono l’opera simile, diceva il pur devoto biografo Henry Barraud, a una cena di soli antipasti. Con la collaborazione del suo geniale scenografo Paolo Fantin, Michieletto ne fa un derby fra l’amore “naturale”, sensuale, istintivo, e quello istituzionalizzato dalla società nei sacri vincoli del matrimonio. La scena spoglia diventa così, a un certo punto, un giardino dell’Eden dove, fra lo sconcerto delle sciure genovesi del turno lusso, un Adamo e un’Eva bellissimi e nudissimi fanno i comodi loro senza mela e senza serpenti, mentre Beatrice e Benedetto si cercano dopo tanti litigi, avendo a loro volta scoperto l’amore ma senza l’intenzione di portarlo davanti al parroco. Ma la società vince: Adamo ed Eva vengo rivestiti a forza e chiusi in una teca di vetro come farfalle impagliate; Beatrice e Benedetto, vittime consenzienti degli stratagemmi di amici e parenti, si sposano promettendo di continuare a litigare. Al di là della qualità dello spettacolo e della bellezza folgorante e struggente di alcune immagini (il momento in cui il verdissimo Eden amazzonico si rovescia vale da solo il prezzo del biglietto), chi è contrario al matrimonio in generale e al suo in particolare finisce, una volta di più, per dare ragione a papà Shakespeare, sia pure per interposto Berlioz.

 

Maria Stuarda invece di potenza drammaturgica rigurgita. Livermore sceglie di farla integrale o quasi, in una bellissima traduzione di Carlo Sciaccaluga. E di trasformarla in un Gesamtkunstwerk barocco e pop dove i corpo a corpo fra Maria ed Elisabetta perdono lo storicismo romantico (le due regine sono abbigliate da Dolce e Gabbana) per diventare una riflessione atemporale sul potere, sulla donna e sul potere della donna. Mentre Dowland suonato con la chitarra elettrica si mischia al rock, ogni attore fa più personaggi, spesso en travesti: segnalo, nel comparto più Sturm und Drang della tragedia, il Mortimer esaltato della giovane bravissima Linda Gennari. Le due belve sono affidate a Elisabetta Pozzi e Laura Marinoni che però, fino al momento di entrare in scena, non sanno quale parte toccherà loro. Dipende da dove cade una piuma capricciosa rilasciata da un angelo nel sensazionale prologo monteverdiano: un gioco teatrale cinico e sofisticato, con le due illustri rivali in emozionante gara di bravura. Alla recita del sottoscritto, la Pozzi era Elisabetta e la Marinoni Maria, entrambe, dopo le tirate più clamorose, acclamate dal pubblico “a perfetta vicenda”, come si diceva quando le dive erano ancora dive. Due giorni di gran goduria teatrale, in conclusione (per tacer del pesto, e di Rubens). Il derby registico finisce, direi, in pareggio. Ma non uno di quegli squallidi zero a zero catenacciari; semmai, un tre a tre emozionante fino all’ultimo minuto. E palla al centro.