Lo scandalo perduto

I corpi nudi non bastano più. Da Achille Lauro alla Scala, appello per una nuova eresia artistica

Fabiana Giacomotti

Forse online funzionerà tantissimo come ci dicono le classifiche, ma è un fatto che al cinema e a teatro, il sesso venda meno di un tempo. Nell’èra dell’individualismo estremo imposto dai social, a dare scandalo è l’esclusione, il distinguo, la differenza

Mi sa che non abbiamo dato scandalo stasera, osservava alla prima rappresentazione della “Thaïs” di Jules Massenet alla Scala, dopo ottant’anni  di assenza dal palcoscenico principe milanese, un capannello di signori benvestiti in cui i vertici del teatro si mescolavano ai critici più in vista. Fra i sorrisi serpeggiava, evidente, un filo di delusione. Per la prima volta dopo molti anni, e la firma del Corriere della Sera le aveva elencate tutte puntigliosamente qualche giorno prima inglobando i casi della Fenice e dell’Opera di Roma fra i Settanta e i Novanta del secolo scorso, sul palcoscenico si erano affacciate tre o quattro ballerine a torso nudo esibendo quel particolare tipo di seno “a coppa di champagne” che è prerequisito del corpo di ballo del Crazy Horse di Parigi, sulle quali parevano peraltro modellate anche nella parrucca a zazzeretta rossa, genere Valentina di Crepax, e nessuno aveva fiatato. Dalla metà della platea si era levata, appena soffocata dalla buona creanza, la vocetta di una signora che invitava un marito certamente distratto a dare un’occhiata, “guarda, eccole”, ed era venuto da pensare che, da uno spunto come quello, Ennio Flaiano avrebbe tratto meraviglie. Negli anni Sessanta, però. 

 
All’uscita, un folto gruppo di melochecche (conio di Alberto Arbasino che è sempre un viatico e un lasciapassare, non eccitatevi subito) commentava invece con accenti omerici la bellezza del direttore d’orchestra, il “figlio Viotti”, Lorenzo, “dalle spalle palestrate” e gli occhi teneri del “caro sassone” Georg Haendel, sempiterna star identitaria. Insomma, niente scandalo, pas de scandale, hélas, nonostante tutto l’impegno profuso per provocarlo. Si galleggiava invece spontaneamente nell’aura dorata della pura estetica, come peraltro avrebbe dovuto essere per un’opera del tardo Ottocento francese a metà fra il Flaubert della “Tentation de Saint Antoine” e Gide, languori e morbosità da vetrata policroma e viaggio di piacere fra i palmizi egiziani e come invece, doppio hélas, non era. Immersi per tre ore in una nuova dimostrazione del generale appiattimento registico su un non meglio identificabile presente che dovrebbe “svecchiare” l’opera, e dove invece ci si ritrova immancabilmente in un qualche bar-bordello frequentato da macrò e ufficiali con gli stivaloni (le alternative comunemente praticate, come nella “Thaïs” di Olivier Py, sono il luna park e il collegio femminile, che “fa” più torbido e contemporaneo rispetto a un vago palazzo orientalista e al monastero; il macrò risultava invece presente all’appello nei panni del principe Nicias con petto nudo, tatuaggi e catenoni modello Achille Lauro a Sanremo, ci torneremo), veniva abbastanza ovvio domandarsi che cosa ci siamo persi nella normalizzazione progressiva dello scandalo e se non ci fosse stato invece sottratto qualcosa a cui avevamo diritto. Per esempio, capire perché la sensualissima pagina della Méditation di “Thaïs” suonasse tanto distonica in una messinscena prettamente carnale e perché la borghesia accomodata in sala non fosse sorpresa per niente nonostante tutte quelle tette. 

  

La prima rappresentazione della “Thaïs”, anno 1894, e la fascinazione che Massenet subiva per la prima donna, Sibyl Sanderson

 
La prima rappresentazione della “Thaïs”, anno 1894, fu ammantata sulla stampa dell’epoca dalla fascinazione che Massenet subiva per la prima donna, Sibyl Sanderson, femme fatale reale e anche abile affarista, ma soprattutto dal suo tentativo di apparentarsi a quella che era l’avanguardia poetica del momento, il simbolismo. La pur pallida trilogia di “Antonia” di Edouard Dujardin, padre del flusso di coscienza, era stata rappresentata un anno prima dalla compagnia di Lugné-Poe con i fondali dipinti da Maurice Denis, il caposcuola dei Nabis, e anche lì vi appariva una cortigiana come simbolo di perdizione dell’umanità ovvero del maschio (state pur sicuri che quando c’è di mezzo una seduttrice mediorientale, nessun autore sfugge al richiamo della Taide di Dante “con l’unghie merdose”), un uomo crocifisso, versi lenti e molte pause, insomma tutta la panoplia in voga e di cui Anatole France si era fatto beffe nella sua versione della santa Taide, da cui Louis Gallet aveva poi tratto il libretto, molto liberamente, cioè ricascando nella fascinazione per gli incensi e i turbamenti dell’anima. Quella del periodo simbolista non era incarnazione di sentimenti forti: era la loro pura rappresentazione, come la Salomé di Wilde disegnata da Aubrey Beardsley (anche qui, pubblicazione nel 1893), e tutto quel misticismo da salotto fatto per segnare una cesura, beninteso solo apparente, con la pinguedine intellettuale di un pubblico ricco, avido di escapismo. Non è chiaro perché il pubblico di oggi debba essere privato di una rivisitazione, anche contemporanea per carità, di quelle atmosfere, “fare un’esperienza nuova” per dirla col gergo della comunicazione, e debba invece ritrovarsi sempre al luna park o al palazzo dei piaceri dell’oggi indefinito, show me the way to the next whiskey bar. 

 
Forse online funzionerà tantissimo come ci dicono le classifiche, ma è un fatto che al cinema e a teatro, il sesso venda meno di un tempo e la trasgressione della matrice cattolica zero proprio, e questo nonostante i registi di oggi abbiano scoperto Félicien Rops e, da Damiano Michieletto a Py, si siano messi a riempire i palcoscenici di donne nude e teste di maiale, nel vano tentativo di rivitalizzare quella blasfemia artistica che, quasi due secoli dopo la loro esibizione nei salon, non è più data. 

 
L’amica de La7, rimasta confinata in casa per dieci giorni causa Covid, dal proprio letto di dolore ha scoperto “Il Grande fratello” e adesso non esce più il venerdì sera (è il venerdì sera, giusto?) per goderselo: dice che di tutta quella sceneggiatura a sfondo sessuale le importa un fico, ma che il continuo chiacchiericcio delle figurine umane mosse dal burattinaio maximo Alfonso Signorini su ogni genere di trivialità la rilassa molto. Quant’è difficile épater la bourgeoisie di oggi cara signora, rispetto ai tempi in cui Camilla Cederna poteva permettersi di replicare sull’Espresso le esclamazioni delle mamme che si vedevano tornare a casa il figlio con la cresta punk arancio carota (“Madonna Signor, quest chi l’è minga el me fioeu”) e bastava che David Bowie si inginocchiasse nello stadio di  Wembley e recitasse il Padrenostro per far stampare e vendere migliaia di copie in più dei quotidiani. Achille Lauro, che a Sanremo ha inscenato un auto-battesimo in pantaloni di pelle nera Gucci e petto nudo, si è fatto prendere per i fondelli perfino dal direttore dell’Osservatore Romano, Andrea Monda: “Volendo essere a tutti i costi trasgressivo, il cantante si è rifatto all’immaginario cattolico. Niente di nuovo. Non c’è stato nella storia un messaggio più trasgressivo di quello del Vangelo”, ha scritto perfido ed efficace, chiosando poi anche lui sconsolato come “non ci siano più i trasgressori di una volta”. 

 
Sul caso non si è fatto sentire, per dire, nemmeno il senatore Pillon col suo papillon, che in questi casi è sempre una garanzia, gli uffici stampa dovrebbero tenerlo in maggior conto e chiedere il suo parere prima di mandare i propri artisti allo sbaraglio con la manina nella patta. 

 
Ma il fatto è che per trasgredire bisogna sapere, mentre la biblioteca di riferimento dell’oggi è un po’ troppo ridotta, gli stylist degli artisti sempre gli stessi e l’accesso al denaro troppo contenuto (senza un patrimonio a sorreggerlo, uno scandalo è un mero fatto di cronaca, come osservava Roland Barthes). Per restare a Sanremo e agli scandali dell’oggi, non ci sono dubbi che l’unico fattaccio degno di nota, il solo attorno al quale sia infuriata una battaglia per il limite temporale massimo di tolleranza attuale che è pari a quarantotto ore, sia stato il commento di un collega sulle “gambe importanti” (scritto anzi al singolare, “gamba”, che è il ricorso metaforico principe dell’oggettivazione) di Emma Marrone, anche lei comparsa sul palcoscenico dell’Ariston in abito Gucci ma di velluto nero con profondo spacco che sì, era inadatto alla sua personalità prima ancora che alla sua figura ma che no, non era lecito commentare come tale. 

  
Questi sono gli scandali che occupano adesso la gente e che scaldano gli animi e i social: il discostamento dalla normalizzazione ossessiva e costante di qualunque aspetto della vita quotidiana, a partire appunto da quell’eccezione naturale e irreggimentabile che è la bellezza, anzi l’armonia fisica, e che proprio per questo manda ai pazzi i sostenitori dell’uniformità purchessia. Nell’èra dell’individualismo estremo imposto dai social, dell’unicità che è parola più bella della diversità come dice Gianluca Gori-Drusilla Foer, a dare scandalo è l’esclusione, il distinguo, la differenza. Guai al gioco del tu sì tu no, e lasciate perdere quelli del coté sfilate che hanno capito l’antifona e ormai mandano in passerella chiunque, anche gente a cui il vestito caro al cuore dello stilista sta oggettivamente malissimo e tira qui e là, pur di fare titolo sui giornali. 

   

Pure a Miss Italia quest’anno ha vinto una ragazza di Scampia, una provenienza socio-geografica che ha ovviamente chiuso la bocca agli hater

   
Lo scandalo di oggi è il riconoscimento della differenza in un mondo che si vuole uniforme, uno-vale-uno a prescindere dal fallimento dei Cinque stelle e dall’evidenza costante del contrario. Per questo faceva quasi tenerezza il testo aggressivo-giustificatorio (“la bellezza colora il mondo e negarla in nome di un concetto di inclusione portato all’iperbole è stupido prima che assurdo”) pubblicato l’altro giorno su Instagram da Maria Corbi, cara collega della Stampa, chiamata a giudicare le concorrenti di Miss Italia, la manifestazione più escludente che si possa immaginare di questi tempi inclusivi, e dunque bersaglio di ogni vituperio: “La bellezza deve includere, avere forme dettate dall’occhio e dal cuore di chi guarda, senza canoni, taglie, gabbie, ma esiste. E non c’è niente di male se le ragazze la esibiscono insieme ad altri talenti”. Per il bene di tutti, a partire dall’organizzazione che ormai si è ridotta a trasmettere la serata su una rete online e sta virando dalla passerella in costume da bagno al talent professional-canoro modello “Amici” di Maria de Filippi, ha vinto una bellissima ragazza di Scampia, una provenienza socio-geografica che ha ovviamente chiuso la bocca agli hater perché prendersela con una che ha finalmente l’opportunità di lasciare un contesto come quello sarebbe, per usare il gergo del contesto stesso, “un’infamità” e dunque uno scandalo che per l’hater si trasformerebbe in un boomerang. Questo per dire che, se Olivier Py avesse voluto veramente dar luogo a un minimo di polemica con la sua “Thaïs”, avrebbe dovuto mandare in scena non ballerine statuarie a petto nudo, oggettivamente bellissime, ma quel genere di corpi che l’ipocrisia borghese di oggi definisce “non conformi”, qualunque cosa voglia dire, e aspettare la prima voce dissenziente per scatenarle addosso una shit storm, una valanga di unghiate merdose.

Di più su questi argomenti: