LaPresse

Il foglio della moda

Alla Scala va in scena l'abito del potere

Fabiana Giacomotti

La “Prima” torna in presenza. Gran tour dei Laboratori Ansaldo con il costumista Gianluca Falaschi per seguire gli ultimi ritocchi ai costumi del “Macbeth” e scoprire come il segno dell’abito non debba farsi, necessariamente, di-segno e pre-giudizio dei cattivi della storia 

Gianluca Falaschi solleva un lembo del tulle dipinto che una sarta sta trasferendo sull’abito più spettacolare destinato ad Anna Netrebko, Lady Macbeth della “Prima” del 7 dicembre. È un volo di aironi bianco e oro su una gonna ampia in taffettà rosso carminio. Il simbolo di un tentativo di fuga dall’orrore che non le riuscirà. "Vedi? Sembrano ricami ma sono pittura che si gonfia col calore del ferro. Li abbiamo fatti qui, nel laboratorio di pittura".

 

Mattinata di sole freddissimo, atelier Ansaldo di via Tortona: si apportano le ultime variazioni alle scene e ai capi e sarà l’ultima volta perché, fra qualche mese, laboratori e Accademia si riuniranno in via Rubattino, in uno spazio adeguato alle nuove esigenze, che si sono moltiplicate in proporzioni geometrica negli ultimi dieci anni. Su una giacca da sera per Anna Netrebko, Lady Macbeth, un altro volo di aironi, questa volta ricamati col filo di seta, attende il suo giudizio: "Ti pare che le zampe si pieghino nel modo giusto?". Penso al pubblico dell’ultima fila, ma anche della prima, e taccio: d’altronde, se chiamano i nostri costumisti nei teatri di tutto il mondo a insegnare taglio storico, stile e decorazione è pour cause. Se lo meritano, ancorché Falaschi, come il suo regista di riferimento Davide Livermore, è molto attento allo stato dei diritti sociali dei paesi dove collabora e non sempre accetta le offerte. Nell’Archivio Costumi, la responsabile Rita Citterio, un’appassionata che dei colleghi dice "qui siamo tutti milanesi anche se siamo nati altrove", ha appena esposto in una teca il costume della coppia Macbeth firmati da Maria Bjornson nel 1997, per l’allestimento di Graham Vick ormai passato alla storia come “Il Macbeth del cubo”.

 

Dirigeva Riccardo Muti, che in questi giorni sta provando il Nabucco alla Fondazione Prada: i costumi, gialli e neri, hanno un’aria molto Gianni Versace, all’epoca stretto collaboratore del teatro e nessuno sapeva che lo sarebbe stato ancora per pochi mesi. Tagli netti, giallo, nero. Non hanno retto all’impatto della storia; sembrano, e sono, molto vecchi. Falaschi, famiglia romana di militari di carriera, madre napoletana che deve avergli ispirato un certo gusto personale dégagé che gli permette di indossare delle brogue bicolori sotto il gessato e sembrarci nato dentro, è stato ormai ampiamente adottato dalla Milano che conta, città che ha imparato ad amare scoprendone l’accoglienza “non scontata, ma aperta, schietta e affettuosa una volta concessa”, e che è poi la stessa che lo applaudirà fra poche sere. Di Milano gli piace “il senso della misura, il rispetto per il lavoro ben fatto, il senso di comunità”, che è un po’ quanto scriveva Henri Beyle, Stendhal, duecento anni fa. Sentirlo ancora una volta fa un po’ specie: forse noi milanesi siamo davvero così. Con il “Macbeth”, Falaschi è alla sua quarta apertura del Piermarini, volendo considerare tale anche il faticosissimo lavoro di styling dell’anno scorso, col teatro in lockdown, per lo spettacolo televisivo che il sovrintendente Dominique Meyer volle dedicare agli italiani come gesto di affetto e di conforto e l’Italia intera si sciolse in lacrime sul “tutto cangia, il ciel s’abbella” del Guglielmo Tell. Offrivano i look Armani-Valentino-Dolce&Gabbana più vari ed eventuali.

 

Ero lì due sere prima della messa in onda, posso testimoniare sul livello stratosferico di stress, perché una cosa è creare ex novo per un artista con un confronto diretto, un altro mediare fra primedonne del canto amanti della cofana e primedonne della moda che lo detestano. Falaschi tenne botta con i suoi modi concilianti, il sovrintendente probabilmente non si è reso mai conto di quanto fu difficile. Quest’anno, nonostante la cena ufficiale alla Società del Giardino saltata causa aumento dei contagi e nuova variante Omicron, il teatro riapre a capienza piena, con molte regole, braccialetti per consentire o vietare il passaggio da una zona all’altra, divieto assoluto di sostare nel foyer oltre il tempo strettamente necessario: un’imposizione che sta mettendo in crisi le signore desiderose di mostrare la mise a favore di telecamere e che invece dovranno sempre tenere agganciata al viso anche la mascherina e si teme già il pendant col vestito. La grande novità estetico-mondana sarà il passaggio della sala e del palco centrale dalla decorazione floreale dei Dolce&Gabbana a quella di Giorgio Armani, nuovo socio fondatore del Teatro.

 

Botanicamente, una rivoluzione copernicana; milanesi molto felici di poter festeggiare il signor Armani, orgoglio cittadino, per la rosetta di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica. Tira aria di sobrietà, e dopotutto, come si fa a vestirsi in tono col “Macbeth” senza rischiare la caduta nel folklore scozzese o, all’opposto, nell’effetto “Caduta degli dei” che era anche il timore dei loggionisti: una messinscena nazi-chic, rifugio della para-attualizzazione lirica a cui i registi ricorrono fin troppo di frequente, avrebbe corso il rischio di una sonora bocciatura. Davide Livermore (vedere intervista a pagina 2) si è tenuto lontano dalla panoplia divise-e-stivaloni guardando a un contemporaneo distopico e simbolico di grande impatto che però, per Falaschi, si è tradotto in una ricerca di capi durata quasi un anno e in un grande lavoro di scrittura visiva per temi e gruppi. "I costumi", osserva, "sono parole non dette".

 

Nel laboratorio attendono di essere indossati, ognuno col nome del corista appuntato sul bavero, centinaia di abiti tinti nei colori di un cielo che progressivamente si scurisce. È la folla che vive e attende ai propri affari senza capire quel che si decide e si discute altrove, nonostante l’uso forsennato dei social, o forse proprio a causa di questo. Il popolo bue, insomma, che Falaschi definisce diplomaticamente “l’umanità indistinta” e che ha costruito ispirandosi al ritratto di Barack Obama di Craig Alan: un volto umano composto da migliaia di corpi, infinitamente piccoli. Nel laboratorio di pittura ci hanno lavorato per mesi, l’effetto sarà quasi più simbolico che cromatico.

 

Il guardaroba di Luca Salsi, “Macbeth”, si disgrega con il procedere dell’azione, dopo essersi via via raffinato: d’altronde, quante volte abbiamo seguito la stessa parabola – abito di confezione, completo di sartoria, capi lisi – seguendo l’ascesa e la caduta del tale manager, dell’imprenditore che sembrava inarrestabile? "Nel guardaroba dei “Macbeth” e della loro corte ho cercato di interpretare la hubris del potere", dice Falaschi, che per la scena del banchetto, un Party in White, ha vestito il palcoscenico intero in bianco, tinta sporchevole e dunque tinta della ricchezza “sciur padrun da li beli braghi bianchi” e oro. "Ho pensato alla Milano degli Anni Novanta o a certe feste a tema agli Hamptons: la Milano delle grande terrazze invisibili sui viali, dove il ruolo fa appartenenza". Nei disegni, che pubblichiamo in parte in queste pagine e nella quasi totalità online, pare di cogliere un riferimento all’ultimo stile Schiaparelli di Daniel Roseberry, altro designer che guarda all’abito non con occhio moralista, ma attento certamente sì. "I costumi non devono raccontare i caratteri, tanto meno inchiodarli a un giudizio che, poi, sarebbe un pregiudizio. Piuttosto devono attraversarli, offrire una chiave di interpretazione che accompagni il lavoro dell’attore e del cantante. E Anna è un’attrice formidabile". Sulle streghe, il rischio della baracconata, sempre in agguato a meno di caricare di segni in un eccesso di potenza, modello Thierry Mugler, è stato evitato giocando appunto di sottrazione e cioè valutando il paranormale per quello che è: una percezione personale. “C’è gente che coglie presagi anche nel colore di un ombrello”. Lui, per sé, ha scelto uno smoking Armani.