© Teatro alla Scala / Brescia - Amisano (via Facebook)

Lirica della sartoria alla Prima della Scala

Fabiana Giacomotti

Il costumista è riuscito a vestire tutti con l’eleganza della contemporaneità. Questa volta non c’è un solo abito fuori posto

E stavolta i costumi della Prima della Scala sono eccezionali. Contemporanei ma anche storici, colti eppure perfettamente intelligibili anche per l’osservatore meno attento (lo si potrebbe definire l’osservatore della Prima della Scala, ma rischiamo di cadere nel cliché delle damazze che aspettano la calata del sipario per andare a cena alla Società del Giardino e dunque ci asteniamo). Duecentoventi capi – oltre la metà solo per il coro – che Gianluca Falaschi ha disegnato e cucito talvolta personalmente nel grande laboratorio dell’Ansaldo governato da Cinzia Rosselli, oppure in quel guardaroba al terzo piano di via Filodrammatici dove ora ci sta mostrando gli abiti e le camicie dei protagonisti insistendo sulle spalmature e le sovratinte “ispirate all’arte informale di Burri”.

 

Gianluca Falaschi ha guardato alla corrispondenza di Giacomo Puccini, che seguiva personalmente e con cura i costumi delle opere

In quei capi si intrecciano ricordi delle organze di Gianfranco Ferré, che vestiva le grandi dive anche nella vita privata e che ora avvolge di croccanti trasparenze la soprano Anna Netrebko, mentre cerca il suo pittore fra le ombre di sant’Andrea della Valle, e le plissettature ascetiche di Issey Miyake fra i papalini del Te Deum; le cotte guardano nelle traslucenze ai rossi marezzati di Bacon. Mario Cavaradossi veste pantaloni di taglio ottocentesco rivisitato e camicie col pistagnino nei colori e nelle sete lavate grigio perla che potrebbero piacere a Giorgio Armani. Per le parti maschili, sacre e mondane, Falaschi ha guardato alla corrispondenza di Giacomo Puccini, che al pari di Verdi seguiva personalmente e con molta attenzione i costumi, e ai bozzetti della romanità di Bartolomeo Pinelli, evitando però il tristo effetto Rugantino e in generale quel tono greve, di “pancia”, che il dramma porta in sé dal testo originario di Victorien Sardou, e che infatti venne molto criticato in Francia. Nulla ci toglierà dalla testa che mai in teatro fu scritta una scena più volgare di quella in cui Tosca mette due candelabri accanto al corpo di Scarpia e un crocifisso sul petto dopo averlo accoltellato: non riusciva a renderla elegante nemmeno Sarah Bernhardt, che nel famoso film girato da Pathé ai primi del Novecento vediamo affaccendarsi sul cadavere del capo della polizia papalina come una massaia bigotta, pur nei veli e nelle famose “scarpine a punta” su cui si estasiava il Figaro.

   

Lo Scarpia scaligero paga il tributo alla grande lezione di Caramba, costumista maximo del primo Novecento, con la forse inevitabile vestaglia da camera in velluto, riportata però al taglio di gusto settecentesco del banyan dalle ampie maniche in cui si avvolgevano i ricchi e gli intellettuali (guardate i ritratti di Alexander Pope, ma pure Vittorio Alfieri alla mostra del Canova di Palazzo Braschi). Abiti di ieri, di oggi, ma anche di un tempo cristallizzato nella nostra capacità di lettura del presente. Analizzate l’abito di Tosca nel terzo atto, fatelo senza farvi distrarre dalla pur meravigliosa simbologia del colore di cui è impregnato, quell’azzurro cielo digradante dalla scollatura nel rosso denso del tramonto sulla gonna e cupo sull’orlo come un giorno che inizia carico di promesse e si conclude tragicamente, fra i nomi di due uomini invocati il primo con amore (“Mario Mario”) e il secondo con odio (“Scarpia, avanti a Dio”). La Tosca scaligera 2019 veste un abito da sera che potremmo definire della contemporaneità ideale, cucito di codici riconoscibili e condivisi ora come avrebbero potuto esserli venti, trenta anni fa. Potrebbe essere uscito da una collezione di Pierpaolo Piccioli, se mai questo volesse riprendere il famoso modello dell’estate 1968 di Valentino con l’ampia arricciatura “à la Watteau” sul dorso e dipingerlo a mano come il Rothko a cui Falaschi si è ispirato, calza sandali d’argento (produzione Pompei, sguardo fisso ai modelli di Caovilla) e si completa con un mantello di seta in tinta che indosseremmo tutte noi, se appena ne avessimo l’occasione. Anzi, a ben guardare, il gesto di Anna Netrebko che si scosta il cappuccio nel filmato di promozione della “Prima” in diretta su RaiUno ci ricorda una pubblicità molto famosa di Chanel della fine degli anni Novanta in cui Cappuccetto Rosso addomesticava il lupo.

   

Il simbolo potente del mantello in cui la donna si svela celandosi, permea l’intera storia del costume. Seduzione e nascondimento

Tosca crede di aver ammansito e vinto Scarpia e sappiamo che non è così, mentre il simbolo potente del mantello in cui la donna si svela celandosi, oggetto di seduzione e di nascondimento, permea l’intera storia del costume, delle stampe, del cinema, basti pensare a “Senso” di Visconti, la corsa della contessa Serpieri nel Ghetto. Ne ha dato un’altra prova l’altra sera a Verona Paolo Roversi nel film sognante con cui ha accompagnato il Calendario Pirelli 2020, che si ispira alla storia leggendaria di Giulietta: anche in questo short movie, una donna ideale, che accompagna i pensieri e le dichiarazioni di tutte le protagoniste del calendario, svela la propria passione e il proprio tormento sotto un ampio mantello a cappuccio, un archetipo del vestire femminile. Questa che ci appare in una mattina fredda e assolata, mentre il bijoutier dell’Ansaldo si appresta a fissare le pietre in pasta di vetro e le foglie di metallo dorato del piccolo diadema di gusto napoleonico che Anna Netrebko indossa nell’ultimo atto, è una Floria Tosca che non dimentica di vivere nel giorno del Signore 14 giugno 1800, mentre a seicento chilometri da Roma infuria la battaglia di Marengo, ma è anche la Floria Tosca imprudente e istintiva che molte donne sanno di essere, nel 2019.

   

Il gioco del teatro nel teatro, del teatro che guarda se stesso nel pubblico in sala, funziona fin da quando Giuseppe Verdi volle la sua Violetta abbigliata come le matrone che l’avrebbero giudicata attraverso la lorgnette, inchiodandole alla loro ipocrisia. Dunque, questa Tosca diva e nella storia e nella vita, amante dei gioielli di cui orna la Vergine ma anche se stessa, libera e sensuale, è una donna consapevole di sé e dell’effetto che produce in chi la osserva (altro che la sciatta e logora polemica sul #metoo in cui qualcuno ha cercato di trascinare Riccardo Chailly e il regista Davide Livermore: chi non ha capito che fra Tosca e Scarpia si innesca un gioco di potere svilisce questo grande personaggio femminile). Dice Falaschi che Anna Netrebko sia stata particolarmente collaborativa, accettando ogni suggerimento “purché garantisse libertà e comodità nei movimenti” e partecipando in prima persona alle scelte sulla costruzione estetica del personaggio, non ultimo nell’acconciatura per la quale il costumista ha guardato alle immagini delle ospiti alle Prime di un tempo, e in particolare alle foto di foyer di una rappresentazione del San Carlo di Napoli degli anni Sessanta. Come risulta evidente dal suo account Instagram, alla primadonna di stasera la moda piace molto.

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