Giacomo Puccini (foto: Wikimedia Commons)

A Roma, Puccini com'era nel 1900

La devota Tosca e il suo eroe per caso travolti dalla passione

Marina Valensise

L’opera nell’allestimento originale del debutto, che avvenne sempre al teatro Costanzi. Il suo autore doveva essere il successore di Verdi (l’idea fissa di Giulio Ricordi), ma anche qui sui grandi ideali alla fine prevalgono i sentimenti

Doveva essere il successore di Verdi. Questa era l’idea fissa dell’editore Giulio Ricordi, “padrone e despota della musica italiana”, che conobbe Giacomo Puccini giovanissimo e puntò subito su di lui. Il nuovo Verdi doveva prendere il posto del padre del melodramma italiano ormai vegliardo, ma ancora pieno di energie, tanto da comporre un capolavoro come l’Otello a settant’anni suonati. Eppure, niente di più lontano tra Puccini, col suo modo di scrivere nervoso, la sua sensibilità intimista e moderna, e il mondo musicale di Verdi. Da un lato il vate, l’antitaliano maestro paradossale di italianità, il patriota tutto d’un pezzo che si lascia infervorare dagli ideali del Risorgimento, muovendo i suoi personaggi come eroi in cerca di riscatto, figure virili animate del sacro fuoco della libertà in lotta aperta contro la tirannia, l’arbitrio, il sopruso. Dall’altro, il genio fragile dei sentimenti umani, creatore di tante figure drammatiche còlte nella loro essenza tragica, assediate dal rimpianto, dall’amarezza, vittime della disillusione e della malinconia, come se le passioni fossero un’energia fuori controllo, che rende impossibile discernere il confine tra bene e male, perché bene e male, vittime e carnefici, in fondo, non sono che due facce delle stessa medaglia, il riflesso ambivalente di un’essenza unica e irriducibile. Mentre Verdi detta legge, controlla, inquadra e decide, Puccini la legge sembra subirla, piegandovisi quasi a malincuore. Anche nella composizione gli stili divergono. Se il primo scrive di getto, a flusso continuo, l’altro crea soltanto attraverso un travaglio infinito che può durare anche anni e lo impegna in una lotta impari contro i librettisti e contro il libretto, che taglia, cuce, abbrevia, ricuce, senza troppo preoccuparsi di sconvolgere la logica del racconto, incurante dell’azione e della sua razionalità, indifferente a ogni dimensione esterna ai sentimenti e al tormento dell’animo in preda all’emozione. Perché quello che conta per lui è l’emozione, il sentimento, la pulsione individuale nel suo moto incessante e tanto più drammatico in quanto stretto nella morsa imprevedibile del caso, e per questo passibile di eccessi sino a sfociare nella follia.

 


Una locandina della Tosca disegnata da Adolfo Hohenstein (che era anche copertina della prima edizione Ricordi dello spartito per voce e pianoforte)


 

Ecco allora Tosca, l’invenzione forse più verdiana di Puccini, che in questi giorni viene riproposta al Teatro dell’Opera di Roma nell’allestimento originale del debutto, avvenuto sempre al Costanzi il 14 gennaio 1900 in presenza di Puccini, della regina Margherita (solo per il secondo atto), di musicisti celebri come Mascagni, Cilea e Sgambati, con Hariclea Darclée, Emilio De Marchi ed Ettore Borrelli, e Leopoldo Mugnone sul podio. “E’ un modo filologico per valorizzare la memoria di un grande teatro, che custodisce ancora oggi laboratori e maestranze in grado di dipingere a mano le scene originali”, spiega il soprintendente Carlo Fuortes, che ha avuto l’idea e annuncia ora l’edizione di un volume sulla storia del teatro, a cura di Claudio Strinati, per i tipi di Electa. Così con la regia dell’anglo-italiano Alessandro Talevi, vedremo i bozzetti e i costumi originali di Adolf Hohenstein (ricostruiti rispettivamente da Carlo Savi a Anna Biagiotti) rianimarsi grazie all’argentina Virginia Tola, al tenore Giorgio Berrugi, al baritono Luca Salsa, al suo debutto nel ruolo di Scarpia (e unito nella vita alla Tola, anche se separati dall’opera), con il soprano Svetlana Kasyan e il baritono Gevorg Hakobyan impegnati nelle prime parti in alcune recite successive. Sul podio il direttore Jordi Bernàcer.

 

L'invenzione forse più verdiana di Puccini: Tosca è una figura moderna: vanitosa insicura, primadonna tinta di ingenuità

Tosca è una figura moderna: anima da primadonna, tinta di ingenuità. “Cantare la Tosca è adrenalina pura: vocalmente è una tessitura magnifica, che ti permette di stare tre ore in scena senza stancarti”, dice Madelyn Renée che ha debuttato in quel ruolo. Innamorata in preda alla gelosia, è l’amante del pittore Mario Cavaradossi, liberale per caso e complice, sempre per caso, di un ricercato politico in fuga. Passionale, ma religiosissima, sogna di ritrovare con lui i momenti di lascivia vissuti nella “casetta che tutta ascosa nel verde ci aspetta”, e gli fa persino una scenata quando scopre che la Maddalena che sta dipingendo a Sant’Andrea della Valle somiglia all’Attavanti, che poi sarebbe la sorella del fuggiasco Angelotti. Insomma è una vanitosa insicura, una passiva aggressiva, che incarna l’amore e l’odio e il dramma totale di due pulsioni incompatibili, ma alla fine, per salvare il suo amato, tira fuori una grinta da virago e diventa una spietata assassina. La notte in cui dovrebbe cedere alla seduzione del capo della polizia Scarpia, “il bigotto satiro che affina / colle devote pratiche / la foia libertina…”, il potente corrotto e lussurioso, che in cambio delle sue grazie le ha promesso di liberare l’amante, Tosca afferra un coltello e l’ammazza.

 

Tutta l’azione per Puccini si concentra qui, in questi gesti estremi, riflesso di passioni assolute, crudeli e senza sbocco. In compenso, la storia della Repubblica romana che sfida l’autorità del Papa e l’ordine borbonico, in nome del patriottismo rivoluzionario e giacobino e dell’entusiasmo bonapartista, resta lontana come una tela di fondo, come un semplice espediente o l’occasione per attivare la drammaturgia dei sentimenti. Sarà anche per questo che il regista Talevi oggi parla di “un istinto e di un senso estremamente cinematografico” di Puccini, come se avesse scritto la colonna sonora di un film, attento più di ogni altra cosa all’atmosfera.

 

Puccini successore di Verdi? Aveva solo 18 anni quando scoprì l’Aida e il genio di Busseto, e su due piedi decise che quella sarebbe stata la sua strada. Leggenda vuole, ma le testimonianze abbondano, che con gli amici Carniccio Carignani e Gigi Pieri avesse percorso a piedi i venti chilometri che separano Lucca da Pisa per andare ad ascoltare l’opera di Verdi. Era il settembre del 1876. Giacomino, studente mediocre ma pieno di fantasia, organista dalle monache Benedettine, era riuscito con un sotterfugio a sfilare dei soldi dal rotolino che le suore gli davano per la madre. S’era anche inventato un sistema di allenamento podistico. Arrivato al teatro, senza nessuna esitazione, con la scusa di consegnare una lettera urgente all’impresario, s’infilò in galleria coi suoi due amici. Quella sera per lui fu una rivelazione. “Sentì un tumulto di idee, una febbre, non mai ancora provata, di desideri e di speranze che da quel giorno non lo abbandono più. E quel giorno appunto decise del di lui avvenire”, scriverà Edmondo De Amicis nell’anno della Tosca. Di musicisti la sua famiglia ne era piena. Musicista il padre Michele, organista del Duomo di Lucca, che morì a cinquant’anni quando Giacomo ne aveva solo sei. Musicista il nonno, il bisnonno, il trisavolo. La madre, Albina Magi, vedova con sette figli, avrebbe voluto fare del primogenito un maestro di cappella e lo mandò a studiare da un ex allievo del marito. L’anno dopo, Puccini compose un mottetto per la festa di San Paolino, patrono di Lucca, e il successo gli valse l’elogio su un giornalino locale da parte del ricco prozio suo futuro finanziatore, Nicolao Cerù, insieme con una profezia “E’ inutile negare che i figlioli dei gatti pigliano i topi”. Puccini non perde tempo. Decide di andare a studiare al Conservatorio di Milano. Per i soldi, la soluzione la trova la madre, che scrive alla regina Margherita, protettrice delle arti, e ottiene per il figlio una borsa di studio per un anno.

 

Tutta l'azione si concentra in questi gesti estremi. La storia della Repubblica romana che sfida l'autorità del Papa resta lontana

A Milano, Puccini fa la vita da bohème, che avrebbe poi musicato vent’anni dopo, nell’opera tratta dal francese Henri Murger, senza aver mai messo piede al Quartiere latino. Ma basta leggere le lettere degli anni giovanili per cogliere il suo candore, misto a prudenza e mitezza di carattere. Nessuna disperazione, nessun’enfasi, ma un placido adattarsi alle circostanze: la stanza ammobiliata in corso Monforte 26 prima, e poi in via della Zecca Vecchia 10, il minestrone e la scodella ricolma a più riprese per soddisfare l’appetito, la nostalgia struggente dell’olio di casa, l’implorazione alla madre dimandargliene un popoino di quello nuovo, perché a Milano c’è solo quello di sesamo o di lino, e la serenità del bravo figlio che sa come rassicurare la mamma vedova: “La sera, quando ho palanche, vado al caffè, ma passano moltissime sere che non ci vado, perché un ponce costa quaranta centesimi. Però vado a letto presto. Mi stufo a girare su e giù per la Galleria. Ho una camera bellina, tutta ripulita, con un bel banco di noce a lustro ch’è una magnificenza. Insomma ci sto volentieri, La fame non la pato. Mangio maletto, ma mi riempio di minestroni, brodo lungo… e seguitate. La pancia è soddisfatta… Oggi è una giornata pessima, tempo noiosissimo. Sono stato a sentire la Stella del nord colla Donadia e il Fra Diavolo di Auber col celebre tenore Naudin. Però ho speso poco. Alla Stella ho speso poche palanche in galleria e al Fra Diavolo niente, perché m’ha dato un biglietto il Francesconi, quello ch’era impresario a Lucca”.

 


Una locandina della Tosca dell’illustratore polacco Rafal Olbinski


 

Gli esordi saranno spettacolari, ma non privi di ostacoli. Sotto l’ala protettiva di Amilcare Ponchielli, suo maestro al Conservatorio di Milano, compone un Capriccio sinfonico, conosce Ferdinando Fontana, suo primo librettista, scrive la partitura di Le Villi, opera lirica ispirata a una saga nordica, su certe danzatrici fantasma, anime inquiete di giovani spose morte anzitempo, partecipa al concorso Sonzogno ma senza vincerlo. Scoraggiato, non si abbatte. Arrigo Boito che l’ha sentito suonare lancia subito una sottoscrizione per metterla in scena. Il 31 maggio 1884 la prima al Teatro Dal Verme sarà un trionfo. “Puccini alle stelle, Le Villi entusiasmano”, annuncia Marco Sala. L’indomani Puccini e Fontana si presentano da Ricordi, che subito lo mette sotto contratto, dopo averlo ammonito di ritrovare la vena italiana, e avergli mostrato due righe ricevute da Verdi: “Mi hanno scritto tutto il bene del musicista Puccini. Segue le tendenze moderne, ed è naturale, ma si mantiene attaccato alla melodia, che non è né antica, né moderna. Pare però che predomini in lui l’elemento sinfonico: niente di male. Soltanto bisogna andar cauti in questo. L’opera è l’opera, e la sinfonia è la sinfonia; e non credo che sia bello fare uno squarcio sinfonico pel solo piacere di far ballare l’orchestra”.

 

Libretto a sei mani, Puccini però continua a dare la caccia ai difetti. Bisogna leggere le lettere a Ricordi per capire la genesi del testo

Le Villi incontrano il successo al Regio di Torino, ma i fischi del San Carlo di Napoli. Intanto, muore la madre, il prozio Cerù batte cassa, Puccini dà scandalo con Elvira Bonturi, che sebbene sposata e già madre di due figli, incinta del piccolo Antonio, lascia il marito impresario, Narciso Gemignani, per andare a vivere con lui. Tre anni dopo, alla fine del 1889, la nuova opera è pronta per la Scala: “Ho una paura terribile, perché mi fanno una guerra accanita tutti. Se trovi lavoro anche per me, dopo l’Edgar, vengo” scrive a Michele, il fratello minore che sognava di dare lezione di canto alle americane, ma emigra in Argentina in cerca di fortuna e morirà di febbre gialla a Rio de Janeiro, in fuga dopo un duello per adulterio. L’Edgar, in effetti, sarà un semi fiasco, tanto da impegnare Ricordi a rimborsare ai soci la commissione elargita a Puccini, e invitare quest’ultimo a mettersi in cerca di un buon soggetto. E’ Fontana, secondo Dieter Schickling, (autore di un’ottima biografia tradotta da Felici Editore) a suggerirgli la Tosca, sin dal febbraio 1889, ma pare che Ricordi non fosse d’accordo con la scelta di quel dramma passionale a tinte fosche di Victorien Sardou. L’amico e futuro librettista Giuseppe Adami (nella biografia edita dal Saggiatore) ricorda invece che una sera di primavera del 1890, camminando su e già per la Galleria, Puccini chiese a Marco Praga il libretto per una Manon Lescaut, tratta dal romanzo sentimentale dell’abate Prévost e messo in musica sei anni prima da Jules Massenet: “Manon vista da un francese non poteva essere sentita alla stessa maniera di un italiano” scrive Adami. “Voleva la sua protagonista ardente di passione. Frivola e avida, sì, ma travolta, anche lei, perdutamente, nel torbido gorgo che trascina il suo bel cavaliere Des Grieux. Voleva che gli amanti palpitassero sempre in un’ansia comune di salvezza e redenzione”. Praga accetta a condizione di associarsi al versificatore Domenico Oliva. Insieme vanno a Cernobbio per leggere il libretto a Ricordi, “Mai sentito un libretto più bello”, dichiara il principe della romanza, Paolo Tosti, che assiste entusiasta alla lettura. L’editore torna su due piedi a Milano per firmare il nuovo contratto.

 

Ma ecco che Puccini inizia a tormentarsi. Aveva già bocciato la versione di Leoncavallo, che per sbarcare il lunario adattava libretti d’opera, e adesso soffre per i quadretti che Praga gli ammannisce. La scansione non lo convince. Vuole più dramma, più passione, vuole un colore diverso per il terzo atto. Il librettista si ritira, e il versificatore, esausto, getta anche lui la spugna: si è allontanato dalla traccia di Praga per fare di testa sua, si lamenta Puccini con Ricordi, e ha scritto un libretto “incerto, contorto, lungo”. Ricordi allora si rivolge a Giuseppe Giacosa, eminente giornalista culturale, che a sua volta gli propone il poeta Luigi Illica, il quale, pieno di zelo riesce a vincere i dubbi di Puccini, entrando nel suo cervello, piegandosi alle sue visioni, cercando di aggirarne l’incontentabilità. Puccini, finalmente, può iniziare a scrivere la partitura. Altro parto complicato, con temi fortemente tragici, come quello dell’appello delle cortigiane, vicino al vascello pronto a salpare, che nasce una certa notte in casa del pittore Mentessi, dallo spunto di un pazzo rinchiuso nel manicomio di Mombello. La prima al Regio di Torino nel febbraio 1893 sarà la consacrazione. “La vostra grande gloria comincia stasera”, dichiara il sindaco, senatore Sambuy. E l’indomani Puccini si prende “un bicicletto”, chiedendo al cassiere di casa Ricordi di provvedere a pagare le rate mensili di 50 lire.

 

“L’ora è fuggita, e muoio disperato… E non ho amato mai tanto la vita”
“… E’ questo grido che voglio, ma con parole semplici, umanissime”

Il duo Giacosa e Illica viene arruolato anche per Bohème. Scartata su consiglio della marchesa Gravina, alias Blandine von Bülow, nipote di Liszt e figliastra di Wagner, la Lupa di Giovanni Verga, crudele dramma incestuoso nella Sicilia assolata, (e non so che cosa darei per mettere in scena l’incontro tra i due), Puccini sceglie il racconto di Henri Murger, volando verso un altro trionfo. Intanto, Ricordi, che sulla Tosca aveva cambiato idea e aveva commissionato l’opera ad Alberto Franchetti, sapendo che costui tentennava, riesce attraverso Illica a farsi restituire il libretto per passarlo a Puccini. Inizia allora un altro balletto a quattro tra i due librettisti, l’editore e il compositore, con Giacosa che fa le bizze, Puccini che si tormenta e dà il tormento, Ricordi che media e Illica che cerca di trovare il bandolo della matassa. Il dramma del francese Sardou in cinque atti e sei scene viene ridotto a tre sole scene, la chiesa, il gabinetto di Scarpia, gli spalti di Castel Sant’Angelo. Lo scrittore francese plaude, dopo aver ridimensionato l’esosità dei suoi compensi, ma insiste nel mettere becco anche lui sulla confezione del libretto, con effetti talvolta esilaranti, come quando suggerisce, per dare un’impronta politica al suicidio di Tosca, di situare il Tevere tra Castel Sant’Angelo e San Pietro. Ma il flumen scorre da un’altra parte, obietta Puccini. E che importa? replica il naturalista francese.

 

Il libretto ormai è un opus a sei mani, Puccini però continua a dare la caccia ai difetti e bisogna leggere le sue lettere a Ricordi per capire la genesi del testo : “Caro sor Giulio, ho letto il secondo atto e ci ho fatto qualche modifica che credo necessaria. Per esempio Scarpia diceva a Tosca: “Come tu mi odii!” Ora è sparito il “come” è rimasto il “tu mi odii” . Prima era più efficace. Poi perché mi fu tolto l’ultimo verso: “E avanti a lui tremava tutta Roma?… Io l’ho tornato a mettere perché mi gioca bene… Per il terzo atto, bisogna fare a meno dell’ultima trionfalata che Illica chiama Inno latino…”. E infatti l’inno latino che Cavarossi in punto di morte dovrebbe pronunciare dagli spalti di Castel Sant’Angelo verrà sostituito dal canto languoroso per l’amore perduto. “In quel momento Cavaradossi ha ben altro da pensare. Non è la Gloria, ma Floria, la sua divina amante, che egli perde. E la chiusa del suo canto non può essere che un grido di disperazione per dover morire. E’ questo grido che voglio, ma con parole semplici, umanissime”, insiste Puccini col suo editore. Ed è così che si conquista la successione di Verdi, stravolgendone la stessa eredità con l’intimismo di Cavaradossi, presunto eroe della libertà che, prigioniero a Castel Sant’Angelo e in attesa di condanna a morte, sa solo pensare al suo destino crudele e rimpiangere tutto ciò che ha perduto: “E lucevan le stelle / E olezzava la terra… Svanì per sempre il sogno mio d’amore. / L’ora è fuggita, e muoio disperato / E non ho amato mai tanto la vita…”.

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