Alexander Pereira (foto LaPresse)

Regime change alla Scala

Fabiana Giacomotti

La Waterloo di Alexander Pereira, bravo ma incauto, decapitato dalla ragion politica di Beppe Sala

Milano. Nessun rinnovo parziale al 2022 per “uscire in bellezza” a braccetto del direttore musicale Riccardo Chailly, come ipotizzava la corte del sovrintendente Alexander Pereira fino a un minuto prima che, nel giorno della battaglia di Waterloo, il 18 giugno il Consiglio di amministrazione della Fondazione Teatro alla Scala lo decapitasse, per mano dello stesso uomo che fino all’ultimo lo ha difeso, cioè il sindaco di Milano. Massima soddisfazione del consigliere tricoteur Francesco Micheli, che a quel posto aveva ambito in passato e con il quale – errore fatale nella Milano della finanza e delle belle donne di gran nome che reggono i destini delle sponsorizzazioni – l’austriaco Pereira non ha mai cercato un’intesa, preferendo, piuttosto, salire sul palco nel prologo della “Ariadne auf Naxos” di Strauss come maggiordomo e, da lì, divertirsi davvero come il cantante d’opera che avrebbe voluto essere.

 

“Abbiamo trovato il consenso sul nome”, dice Beppe Sala, senza pronunciare il nome del successore, ma dandolo per inteso, essendo anche l’ultimo rimasto in lizza per l’avvicendamento della carica in scadenza nel 2020. Sulla poltrona più prestigiosa del panorama lirico mondiale sta dunque per sedersi Dominique Meyer, francese come il predecessore di Pereira, Stéphane Lissner, attualmente alla guida della Wiener Staatsoper: economista di formazione, politico di razza e di gran peso fin dagli anni in cui affiancava Jacques Delors al ministero dell’Economia. La data del suo arrivo verrà comunicata dopo il consiglio del 28 giugno, cioè fra dieci giorni, ma è improbabile che la permanenza di Pereira superi il mese di febbraio del 2020, cioè la naturale scadenza del suo contratto. La ragion di stato ha dunque avuto ragione di quella manageriale, come non poteva che succedere. E come l’ultimo contendente o candidato esterno, Carlo Fuortes, sovrintendente dell’Opera di Roma che, a differenza di Pereira, è nato nella patria di Machiavelli e dunque ne conosce trappole e astuzie, aveva già intuito, sfilandosi dalla gara con eleganza (“Ho chiesto al sindaco Virginia Raggi di riconfermarmi a fronte degli ottimi risultati”, disse sette giorni fa, e bye bye veleni sotto la Madonnina).  Evidentemente Beppe Sala – che in qualità di sindaco è oresidente del cda della Fondazione – non ha intenzione di restare sotto scacco da parte della Lega e del presidente della Regione Attilio Fontana dopo il caso politico dellle trattative pasticciate per l’ingresso dell’Arabia Saudita in Scala o, per meglio dire, della sua cattiva gestione da parte di Pereira (dell’accordo a cui il sovrintendente stava lavorando per far entrare gli al Saud fra i soci erano ovviamente tutti a conoscenza; per far filare tutto liscio quando Matteo Salvini ha alzato la palla sarebbe bastato che stesse quieto fino a dopo le elezioni, invece di agitarsi pedinando il vicepremier perfino alle colazioni delle damazze destro-vestite).

 

Pereira, che firmerà una Prima promettente, con la “Tosca” diretta da Davide Livermore, alla Scala ha fatto benissimo e, soprattutto, ha raggiunto una pax sindacale a cui nessuno dei suoi predecessori si era nemmeno avvicinato e che è stato uno dei motivi del no, non decisivo ma molto ascoltato, della Cgil a Fuortes, geniale e molto creativo ma anche molto poco tenero con i sostenitori del programma “riposo” in cartellone. Il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, aveva già fatto capire qualche settimana fa come la faccenda avrebbe dovuto andare: “Ci affidiamo al sindaco e presidente del Teatro, Giuseppe Sala, che è una garanzia nella scelta”. E di fronte alle polemiche nascenti sull’arrivo di un nuovo “straniero”, aveva detto quello che per un leghista sarebbe indicibile: “Siamo europeisti tutti quanti, appartiene a un’altra nazione, ma non è straniero”. Il messaggio era chiaro e la sentenza emessa. Il ruolo antipatico sarebbe toccato a Sala, che ha preferito “cambiare, piuttosto che tenere un sovrintendente divisivo come Pereira”, secondo quanto dice una figura molto accreditata della Fondazione. Dunque, Meyer: non ha dell’incredibile rivedere un esponente del socialismo europeo a Milano? 

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