“I quadri, gli animali impagliati, le teche, le collezioni di libri… Dove avevo già trovato tutte queste cose insieme? ‘Sembra un gabinetto delle meraviglie!’” (foto LaPresse)

Il regista che visse due volte

Andrea Minuz

I segreti del Bates Motel di “Psycho” confermano la grandezza di Hitchcock, per anni escluso dall’Olimpo dei grandi

Nel 1999, in occasione del centenario della nascita di Alfred Hitchcock, il principe della critica cinematografica italiana, Tullio Kezich, spiegò che era finalmente giunto il momento di ammettere l’errore: “Siamo tutti più o meno colpevoli di aver sottovalutato per anni il maestro del brivido. Dei suoi film si è sempre parlato e con una certa considerazione, ma era come se non riguardassero il cinema come arte e rientrassero solo nell’ambito del puro intrattenimento”. Tutti quei raffinati congegni culturali e metafisici, tutte quelle ricerche di nessi sorprendenti e corrispondenze filosofiche e analogie spericolate che la critica francese intravedeva dietro i thriller di Hitchcock rovesciandoli da capo a piedi sembravano invisibili agli occhi della critica italiana (tra le poche eccezioni: Pietro Bianchi, critico per il mensile dell’Eni Il Gatto Selvatico e fondatore del Giorno”, che le provò tutte per spiegare ai suoi colleghi che Hitchcock non era riducibile ai soli fremiti della suspense e raggiungeva casomai risultati che “andavano ben al di là della felice disposizione spettacolare”).

 

Regista abile, profondo conoscitore del mestiere, ma anche manager freddo e calcolatore, uomo d’affari alieno a ogni bohème

A discolpa della nostra “tenace riluttanza ad accettarlo nel pantheon dei grandi”, Kezich ricordava che quando esplose il fenomeno Hitchcock, cioè grossomodo alla metà degli anni Cinquanta, da noi “si viaggiava sull’onda del neorealismo e i portatori del verbo erano Visconti, Rossellini, De Sica”. Così mentre l’Hitchcock dei francesi faceva saltare le distinzioni tra autore e genere, creatività individuale e sistema hollywoodiano, da noi ci si arroccava nella difesa dei confini di una visione prettamente contenutistica, ottocentesca e particolarmente tormentata del rapporto tra arte e industria. Era quindi indecoroso mettere fuori il naso dall’impegno civile, abbassarsi al di sotto della costellazione del neorealismo, tantomeno addentrarsi nello spettacolo per le masse da cui, casomai, bisognava mettere in guardia il povero spettatore. L’immagine di Hitchcock non aiutava per niente. Difficile trovare un posto tra “Stromboli” e “Umberto D.” per uno che definiva il cinema, “la vita senza le parti noiose”. Regista abile, profondo conoscitore del mestiere, certo, ma anche manager freddo e calcolatore, uomo d’affari alieno a ogni bohème, Hitchcock realizzava film che avevano l’unico scopo di mettere sotto scacco il pubblico, in perfetta sintonia con un’industria votata al profitto che lo venerava e coccolava; un artista, insomma, come poteva esserlo un banchiere svizzero che colleziona arte astratta. Vent’anni dopo il mea culpa di Kezich non si trova più nessuno disposto a mettere in discussione la grandezza di Hitchcock. Però a fronte di biblioteche borgesiane dedicate a Pasolini e il neorealismo mancano ancora grandi libri italiani di critica hitchcockiana. Pochissimi da noi gli studi in grado di competere con i lavori di Chabrol e Rohmer o con la celeberrima intervista di Truffaut o le analisi di Robin Wood o le interpretazioni lacaniane e spericolate di Slavoj Žižek o le letture polemiche delle femministe americane, come Tania Modleski, autrice di un inequivocabile, “La donna che sapeva troppo”. Per il centoventesimo anniversario della nascita si è da poco aperta una mostra a Genova che ripercorre la produzione di alcuni dei titoli più noti, soprattutto del periodo “Universal”. Si possono così vedere anche i materiali del primo film di Hitchcock, “Il labirinto delle passioni”, del 1925, girato anche nel porto di Genova. Hitchcock aveva ventisei anni. In quell’occasione soggiornò all’Hotel Bristol Palace, gioiello “Liberty” inaugurato nel 1905 e celebre per la sua elegante scala elicoidale che, così narra la leggenda, lo avrebbe poi ispirato per il film “Vertigo” (“La donna che visse due volte”). “Vertigo”, uno dei titoli più amati dai cinefili, feticcio filosofico della critica hitchcockiana, spesso ai primi posti nelle classifiche dei “film più belli della storia del cinema” è tornato in sala da pochi giorni, distribuito dalla Cineteca di Bologna che ne ha curato il restauro nell’ambito dei progetti del “Cinema ritrovato” e dei nuovi festeggiamenti hitchcockiani. Nella prima puntata del programma di Serena Dandini, “Gli Stati Generali”, si è anche visto Dario Argento lanciarsi in un lungo monologo sulla “paura”, tirando in ballo ovviamente Hitchcock, ma in salsa migranti, barconi e razzismo, giusto per farci rabbrividire all’idea di un possibile Hitchcock “impegnato”, da infilare nella piazza antifascista tra un Saviano e “Bella ciao”. La cosa migliore di questa “Hitchcock renaissance” viene invece da Adelphi, con il libro del fogliante Guido Vitiello, “Una visita al Bates Motel”, un lungo, affascinante viaggio dentro e intorno a “Psycho”.

 

Il dipinto “Susanna e i vecchioni” dietro al quale c’è nascosto il piccolo foro sulla parete da cui Norman spia Marion

La sfida era in effetti notevole. Difficile immaginare un film più analizzato, raccontato, “sviscerato” di “Psycho” (David Bordwell sostiene sia il film della storia del cinema con più interpretazioni discordanti al seguito). Già subito dopo la sua uscita, nel 1960, “Psycho” non era più solo un film di successo o uno degli incassi più esorbitanti di Hollywood, ma un fenomeno collettivo, un evento di massa analizzato da sociologi, psicologi, educatori. Non c’era dibattito in cui non venisse tirato in ballo: dall’aumento del crimine all’arredo dei Motel americani, dall’inconscio freudiano alla necrofilia o alla crisi delle vendite al dettaglio delle docce opache. Hitchcock era sempre stato abituato a giocare con le sue dichiarazioni, a orchestrare le reazioni della stampa con grande astuzia, ma il fenomeno “Psycho” sfuggì ben presto di mano al suo autore. A distanza di sessant’anni, quando credevamo di aver letto tutto e il contrario di tutto, Guido Vitiello torna, come si dice in questi casi, sul luogo del delitto. “Una sera, rivedendo ‘Psycho’, ho fatto più caso del solito al salottino di Norman”, spiega Vitiello, “i quadri, gli animali impagliati, le teche, le collezioni di libri… Dove avevo già trovato tutte queste cose insieme? ‘Sembra un gabinetto delle meraviglie!’ è il pensiero che mi ha attraversato la mente, ed è stata una piccola folgorazione”. “Psycho” dunque come una galleria d’arte. Una vertiginosa “Wunderkammer” da cui emergono una serie di misteri, indizi, segreti. Il risultato è un libro attraversato da continue e improvvise agnizioni culturali che trascinano il nostro ricordo del film dentro un paesaggio ignoto. Che fosse possibile avvicinarsi a “Psycho” così come si percorrono i corridoi di un museo era in fondo stato suggerito giusto venti anni fa dall’operazione del regista Gus Van Sant, con un film che più che un remake si offriva come un “ready-made”, calco e copia dell’originale, ma a colori e ambientato nell’America contemporanea. Il film non riuscì, ma l’intuizione era infondo corretta. Un anno dopo fu la volta di una grande mostra hitchcockiana che mi capitò di vedere al Centre Pompidou, nel 2001: “Hitchcock et l’art, coîncidences fatales”. Un’orchestrazione di opere d’arte, oggetti, quadri, disegni e story-board per il set da cui emergeva la complessa rete di fonti e rimandi artistici dell’opera hitchcockiana, compresa almeno tra i romantici inglesi e le avanguardie storiche. L’effetto scenico era notevole, ma si celebravano infondo cose note, la grande cultura figurativa del regista inglese o la collaborazione tra Dalì e Hitchcock per il film “Spellbound” (“Io ti salverò”). Vitiello non si limita a mettere in fila i rimandi pittorici, le influenze artistiche o le allusioni mitologiche che attraversano “Psycho”. Scopre di fatto un altro film che prende forma davanti ai nostri occhi in un complesso percorso scenografico allestito anzitutto attraverso il mobilio del Bates Motel. Il “salottino di Norman” diventa il protagonista e il motore della vicenda, specchio della “sessualità metafisica” che alimenta il film: “Prima di Psycho non era mai accaduto, forse, che un film si identificasse a tal punto con i suoi luoghi. Psycho è il Bates Motel e il Bates Motel è Psycho”.

 

La cosa migliore della “Hitchcock renaissance” viene da Adelphi, con il libro del fogliante Guido Vitiello, “Una visita al Bates Motel”

“Una visita al Bates Motel” potrebbe essere un formidabile capitolo della “Filosofia dell’arredamento” di Mario Praz. Anche Vitiello mette in opera un metodo critico individualissimo e poco replicabile, un metodo senza metodo, relativo, eclettico, bizzarro, votato al dettaglio anziché al sistema, alla scoperta improvvisa e illuminante anziché alla verifica generale (leggendo “Una vista la Bates Motel” si imparano cose come l’esistenza della “suspense mistagogica”, un fremito conoscitivo che trasformerà la vostra ennesima visione di “Psycho” in una solenne vertigine ermeneutica). Come spiega Vitello, “si trattava, prima di tutto, di scoprire cos’altro ci fosse in quelle stanze; la prima fase della ricerca è stata dunque un tentativo un po’ disperato di catalogazione – e sottolineo disperato, perché neanche nei faldoni della produzione a Los Angeles si trova granché. Ho dovuto camminare quasi al buio”. Ma evidentemente al buio si vede meglio. Anche perché tutto sembra incredibilmente nascosto in bella vista. Come la piccola riproduzione in procella di “Amore e Psiche” sul caminetto dello sceriffo Chambers, mentre spiega che nessuno può aver parlato con la mamma di Norman Bates perché, poverina, è sepolta da dieci anni nel cimitero locale. Come il dipinto, “Susanna e i vecchioni”, realizzato da Willem Van Mieris nel 1731, dietro il quale c’è nascosto il piccolo foro sulla parete da cui Norman spia Marion mentre si spoglia e si prepara per fare la doccia. Le tracce mitologiche si inseguono una dopo l’altra in una allegoresi interminabile. Il Bates Motel si trasforma in un Tempio dove si celebra il rito dei “Misteri Eleusini” nel loro inedito allestimento horror. Anche gli spettatori del film verranno trattati come degli “iniziati”, rileggendo qui in chiave misterica la formidabile campagna di distribuzione di “Psycho”, gestita in prima persona da Hitchcock stesso, che curò anche un manuale di istruzioni per gli esercenti, chiamati a proibire l’ingresso in sala a spettacolo iniziato e a sorvegliare gli spettatori ansiosi di rivelare la trama al pubblico in coda (“gli iniziati serrano la bocca e non ne fanno parola con i non iniziati”, ricorda qui Vitiello evocando “Le Rane” di Aristotele).

 

“Prima di Psycho non era mai accaduto che un film si identificasse a tal punto con i suoi luoghi. Psycho è il Bates Motel e viceversa”

“Una visita al Bates Motel” accumula una serie davvero impressionante di indizi a suo favore, riportati in bella mostra sulla pagina adelphiana, assai ricca di illustrazioni, documenti, riproduzioni fotografiche. E’ un libro che parla di un film che funziona come un museo e che finisce per diventare una formidabile, eccentrica e personale galleria d’arte che prende forma davanti ai nostri occhi, pagina dopo pagina. E’ in fondo un processo simile a quella della scrittura saggistica di Praz, con cui Vitiello condivide virtuosismi, eclettismo, erudizione illustre e sconfinata; una scrittura che per Arbasino era votata alla costruzione di “un’impressionante rappresentazione artistica eseguite con parole”: “Si affanna a smontare minuziosamente le fonti di un autore o di un’opera, soltanto per ricostruire un’altra opera, assolutamente identica alla prima, al termine di un’operazione del tutto analoga allo smontaggio di un antico edificio in innumerevoli pezzi numerati, esclusivamente per rimontarlo qualche metro più in là, tale e quale”. Anche Vitiello scompone il Bates Motel per rimontarlo giusto a fianco a quello di Hitchcock, ma trasformato in un museo delle meraviglie, come in una versione fantasmagorica e barocca della gita al parco a tema degli Universal Studios, tra le scenografie del film. Come si vede, siamo ben al di fuori dei confini angusti della cinefilia e della critica cinematografica. “Avere a che fare con Hitchcock è come avere a che fare con Bach”, diceva il regista Brian De Palma, “aveva scritto tutte le melodie possibili. Allo stesso modo Hitchcock ha inventato praticamente qualsiasi idea cinematografica che sia stata usata e probabilmente sarà usata in futuro”. Ma come succede con Bach, ogni volta scopriamo nuove forme, connessioni e rimandi possibili. Dopo la lettura del libro di Vitiello sarà difficile guardare Marion che arriva al Bates Motel di notte, sotto la pioggia, senza pensare che stiamo per entrare in una moderna Wunderkammer. “Una visita al Bates Motel” impone alla critica cinematografica il segno dell’arte e infila Hitchcock dentro un’insolita famiglia culturale, tra lirici del Seicento, pittori olandesi, miti classici e quel genere di “bellezza intorpidita dalla morte”, come diceva Mario Praz a proposito della letteratura romantica inglese, che in “Psycho” sembra aggirarsi in ogni inquadratura e movimento di macchina.

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