Riccardo Muti, l'infinito nascosto tra le note

Stefano Picciano

Dalle lezioni di violino al rigore della bacchetta. Gli ottant’anni del direttore patrimonio dell’umanità

Mozart diceva che la musica più profonda è quella che si nasconde tra le note. E’ un’idea incredibile: tra una nota e l’altra anche se strettamente legate c’è l’infinito. Il Mistero è lì, in quello spazio che racchiude l’universo”. Così Riccardo Muti richiama, in un suo scritto (“L’infinito tra le note. Il mio viaggio nella musica”, Solferino, 2019), la dimensione più profonda dell’arte musicale. Scriverne oggi, per noi, è compito arduo ma d’irresistibile fascino, come nel desiderio di indagare ciò che si svolge in quella “isola di solitudine” che è il podio del direttore d’orchestra, quasi a voler sondare l’ineffabile mistero che risiede nell’atto stesso del dirigere: trarre dalle note, eseguendo precisamente quello che è scritto, ciò che non è scritto. Perché, come diceva Gustav Mahler, “nella partitura è scritto tutto, tranne l’essenziale”. 


E’ un mistero mai esauribile, un ardore che pare sospingere il musicista in una continua approssimazione a una bellezza che – pur intensamente presente – sempre rimane al di là dell’orizzonte. Così il maestro diviene, dopo un itinerario artistico di straordinaria ampiezza, testimone di un cammino “alla continua ricerca di una verità interpretativa, di una irraggiungibile perfezione” come, nemmeno trentenne, comprese di fronte a un Vittorio Gui ormai novantenne che gli confidava: “Muti, peccato che io sia ormai vicino alla fine della vita, perché solo ora sto iniziando a capire che cosa significhi dirigere”. 


Era la consapevolezza matura del compito che rende quella del direttore d’orchestra la professione più difficile al mondo: “trarre dall’anima dei musicisti non appena le note, ma la musica”. Non ha strumento, il direttore, da cui trarre suoni, ma solo quella sorta di estensione della mente che sono le braccia – “la destra fa il ritmo, la sinistra ‘il cuore’”, gli aveva detto un giorno Ugo Ajello – per entrare in rapporto con i professori d’orchestra nell’indagine di una materia mai pienamente definibile, nell’inesauribile ricerca di quel quid che rende l’arte ciò che essa è. 


E’ suggestivo ripercorrere le origini di questo itinerario nell’ambiente familiare, a Molfetta, e i primi studi musicali incoraggiati del padre (“per lui era un insegnamento fondamentale nell’educazione, un bagaglio senza il quale non si era una persona completa”) che tuttavia in un primo tempo non sembrano un’ipotesi plausibile (“in tre mesi non raggiunsi alcun risultato, la mia testa recalcitrava e non voleva proprio imparare”). Fino alle parole della madre che, inaspettatamente, si oppone d’un tratto all’idea di abbandonare subito il violino, con un verdetto che sarebbe stato decisivo per la vita del ragazzo: “Aspettiamo ancora un mese”. E qualcosa cambia, la musica diviene una strada percorribile. Ecco allora l’ingresso al Conservatorio di Bari, con le suggestive parole del direttore, Nino Rota, rivolte al giovane dopo l’esame di ammissione: “Ti abbiamo dato dieci e lode. Non per come hai suonato, ma per come potrai farlo in futuro”; e poi il passaggio al Conservatorio di Napoli dove – nell’anno in cui Muti si diploma al liceo Classico – avviene l’episodio forse decisivo: convocato dal direttore, che era allora Jacopo Napoli, il giovane studente si reca alla porta del suo ufficio (“pensavo che volesse rimproverarmi le assenze”) e sente rivolgersi la domanda: “Hai mai pensato di dirigere?”. “Di tutte le domande che potessi immaginare era la più imprevista”, ricorda, “ascoltandomi suonare il pianoforte aveva forse colto un approccio “sinfonico” alla pagina musicale”. 


L’itinerario di Muti, da lì in avanti, si arricchisce di un gran numero di immagini d’icastica pregnanza: il rapporto con Antonino Votto, suo maestro di direzione a Milano, e quel braccio afferrato d’un tratto, da dietro, durante una prova, con gesto brusco ma in realtà pieno di premura e di stima, che pare creare d’un tratto un legame tra la scuola di Toscanini – di cui Votto era stato assistente – e il presente: “Poche storie – racconta Muti – niente fronzoli e cianfrusaglie, andare dritti al cuore dell’opera, gesti essenziali, nulla di più di quanto fosse strettamente necessario”, e quella sbrigatività intelligente che lo portava a stilizzare anche con ironia il gesto del direttore: “Fai così, qualcosa succederà”. Muti accoglie l’eredità di questa tradizione e la arricchisce di tanti altri incontri, come quello con Vittorio Gui, che introduce qualcosa di nuovo: “Fu in casa Gui che cominciai a riflettere sulla direzione come questione non più solo d’accuratezza e precisione, ma anche di grande cultura”.


Non che l’interpretazione, tuttavia, richieda di “inventare” o aggiungere qualcosa di estraneo al testo; anzi, fondamentale appare in Muti un’attenzione dell’oggettività del testo che egli eredita dal pensiero di Toscanini (“il mio segreto – diceva il maestro parmense – è semplicissimo: consiste nel far eseguire la musica, nota per nota, quale fu scritta dall’autore”) e che lo porta a maturare un rispetto altissimo della partitura, quell’“eseguire rigorosamente ciò che è scritto” che appare esigenza fondamentale dell’evento artistico, e che tuttavia non gli impedisce di cogliere le opportunità dell’hic et nunc di ogni singola circostanza, “come nel 1990 quando, contro tutte le mie più radicate convinzioni, spinsi Tiziana Fabbricini, nei panni di Violetta, (…) a cantare un acrobatico mi bemolle sovracuto, che non è scritto nella partitura di Verdi. (…) Ancora non so come mi venne quell’idea, ma quando alla fine del primo atto sentii che nulla era ancora riuscito a scalfire l’atmosfera (…) le feci un cenno. (…) Io ero lì a pregare sant’Ambrogio e san Gennaro e finalmente Tiziana sparò un insuperabile mi bemolle per cui, come si dice, venne giù il teatro. (…) Fu talmente bello che l’applauso scoppiò prima ancora che la nota finisse di risuonare. (…) Quella sera alla Scala era necessario fare un’eccezione”. 


Un rispetto, dicevamo, che esige di considerare l’opera – talora, nel teatro lirico, sottoposta a riduzioni – nella sua integrità, con quell’ardore pieno di curiosità per la riscoperta di “intere pagine imprigionate da graffette arrugginite che per anni nessuno aveva avuto neppure la curiosità di consultare”; un rispetto, insomma, che nasce dalla convinzione che “è (…) fondamentale mettersi al servizio del compositore (…), al servizio della bellezza, cercando di farla risplendere nelle sua essenza più vera”.


E’ l’inesausta ricerca a cui Muti ha dedicato la vita, in quella continua approssimazione che – come sa bene chi lavora con la musica – misteriosamente coincide con la presenza dell’oggetto amato, e al contempo nella consapevolezza – come ha ricordato lui stesso – “che mai arriverò all’altra sponda del fiume, perché dietro le note abita l’infinito, che significa Dio”.


Il fatto è che l’altra sponda del fiume è meta lontana e, allo stesso tempo, presente, se il mistero è nello spazio tra le note, o anche subito prima di esse, se tutto si gioca in quell’istante d’intensità ineffabile che precede il suono, “in quell’attimo costretto a fare i conti con l’infinito”, in cui direttore e orchestra “osservano dentro di sé il contenuto espressivo che fra un attimo saranno costretti a rendere percepibile al pubblico”, in quel silenzio fatto di sospensione e d’attesa con un “fremito dentro, (…) come se la musica fosse già cominciata quando gli strumenti non hanno ancora emesso la prima nota”.
Pare di vedere il riflesso di questa consapevolezza persino nella postura: la compostezza in Muti appare elevata a rappresentazione della dignità di un compito che si affaccia, seppure per approssimazione, all’infinito, e dunque mai indulge al minimo cedimento a gesti eccentrici o originalità, rimanendo sempre come dinnanzi ad una presenza amata. Significativo, in proposito, un aneddoto da lui stesso raccontato, relativo all’epoca in cui era allievo di Votto: “Durante le prove mi sorprese a dirigere con la mano destra mentre tenevo il braccio sinistro appoggiato alla balaustra della buca. Nel buio e nel silenzio si avvicinò, mi colpì con violenza il braccio e mi disse brusco, ma con sottile e implacabile ironia: “Cosa fai, il gagà?!”. Non l’ho mai più dimenticato”.


E avanti, dunque, in un mestiere segnato, pur nei mille incontri, da un’ultima solitudine, “come una missione, un sacrificio”. Una vita di viaggi, di lontananza, di nostalgia. Come quella volta in cui nacque uno dei figli mentre lui si trovava negli Stati Uniti: lasciare tutto e tornare in Italia o rimanere? “Alla fine rimasi (…). Ma Cristina era sola, e me ne è rimasta una piccola ferita”. L’amicizia piena di affetto con Sviatoslav Richter, che il giorno delle nozze di Muti si improvvisa fotografo, e Nino Rota che – nella stessa occasione – arriva portando in dono un baule vuoto: “Lo riempirai con la tua vita”. L’itinerario di Muti è un album di pagine significative, talora avventurose – come l’inaspettata telefonata ricevute da Karajan, che lo invita a dirigere un’opera di Mozart (“Se è lei che me lo chiede, accetto”) – talora commoventi, come quella – dolcissima e struggente – di Maria Callas, che Muti desiderava coinvolgere in un allestimento, la quale lo ringrazia ma declina l’invito, “e aggiunse, col tono di Violetta all’ultimo atto: ‘E’ tardi’”. 
L’amore per la bellezza pare essere il nucleo profondo di tutto il suo itinerario, nella consapevolezza di come essa non sia fattore secondario, ma decisivo per la vita dell’uomo. 


Accorata è la premura del maestro per la salvaguardia di un patrimonio artistico troppo spesso dimenticato; non appena nell’ottica di una conservazione, quanto in considerazione del valore che l’arte può rappresentare per l’uomo anche in un’epoca in cui la dimensione estetica, come ognuno può facilmente constatare, attraversa una crisi forse irreversibile. Abbiamo – si potrebbe dire – un patrimonio musicale che in modo unico parla all’uomo di sé stesso, e tuttavia oggi la cultura dominante spesso promuove ciò che, anziché mettere a tema l’umanità dell’uomo, pare adoperarsi per occultarla. Per quale motivo? Che cosa c’è, per l’uomo, dietro al rapporto con la bellezza? 


Gli appelli di Muti volti a favore di una valorizzazione della nostra cultura non si contano, mentre la musica d’arte diviene, anche nella patria del melodramma, occupazione di pochi, rimanendo sconosciuta e lontana per la maggior parte delle persone. In un contesto – come quello odierno – in cui il criterio con cui dare valore alle cose pare sempre di più essere l’utile e non il bello, troviamo in Muti una voce che sottolinea l’urgenza di comprendere nuovamente il valore della cultura e dell’arte o, se vogliamo, di ridefinire quali siano i fattori decisivi per una vera educazione dell’uomo. Non però che tali appelli “quasi sempre inascoltati” siano pronunciati con amarezza o contrarietà, bensì piuttosto con quella straordinaria ironia che è tratto tipico del maestro e con un ultimo, fondamentale ottimismo: “Dante e Leopardi, Verdi e Petrassi: questa è stata ed è, o può continuare ad essere, l’Italia (…). La speranza è ancora viva, ed è tutta riposta nei giovani”, tanti dei quali – nella consapevolezza di che cosa sia davvero utile all’uomo del nostro tempo – si adoperano “perché l’arte e la cultura tornino a essere il nostro pane quotidiano”. Di qui nasce l’instancabile riproposizione di “quel patrimonio musicale che appartiene alla nostra cultura e alla nostra storia come un tesoro inestimabile e che riesce ancora in maniera esemplare a parlare al cuore e allo spirito dell’uomo contemporaneo”.


E lo ripropone, Muti, con quell’empatia che lo porta a rivolgersi al pubblico, durante le prove, per coinvolgerlo negli eventi della musica, o che gli suggerisce di passare a salutare i cantanti in camerino, poco prima che il sipario si apra; estraneo ad ogni autocompiacimento per i più alti successi, Muti mantiene l’umiltà propria dei grandi, quella determinata dalla consapevolezza di trovarsi dinnanzi a un orizzonte, come quello dell’arte, infinito, di fronte al quale si percepisce la propria piccolezza. Come bambini, con gli occhi spalancati. Rievoca, così, le parole di Schoenberg, quando questi scrive che “il maestro non deve mostrarsi come un individuo infallibile che sa tutto e non sbaglia mai, ma come l’instancabile che è sempre alla ricerca e qualche volta riesce anche a trovare qualcosa”; descrive a più riprese il delicato rapporto che nel tempo si impara a costruire nei confronti dell’orchestra, sottolineando come “spavalderia e arroganza nei confronti dei musicisti dell’orchestra non sono altro che segno di insicurezza” e giunge a confidare il fatto che tuttora egli stesso si sente arricchito dal rapporto coi giovani: “continuo a imparare, anche da questi giovani, che possono talvolta svelarti mondi che non sospettavi, piccole, impreviste illuminazioni”.


E’ nel continuo rapporto con una bellezza inesauribile che sorge il desiderio di comunicarla ad altri, così che – racconta Muti – “ritenni quasi indispensabile (…) comunicare agli altri, in particolare ai ragazzi che uscivano dai conservatori, (…) la mia esperienza”. Nascono così l’Orchestra Cherubini, che accoglie giovani strumentisti accompagnandoli nei primi passi della loro carriera, e l’Accademia dell’opera italiana, dedicata a giovani direttori d’orchestra, maestri collaboratori e cantanti. Frutti preziosi di una vita trascorsa nella bellezza e desiderosa di conoscerla sempre di più, come riflessi presenti di un itinerario che si illumina di una miriade di ricordi, aneddoti, eventi musicali del più grande rilievo, che accompagnano la carriera del maestro lasciando in noi il riverbero, in ultima analisi, di una immensa gratitudine.


 

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