Non moriremo trapper

Viaggio nel mondo di Lucio Corsi, musicista brillante e bizzarro per anima e corpo, più che per etichetta

Simonetta Sciandivasci

Roma. Lucio Corsi ha fatto un disco con otto canzoni che parlano di vento; conchiglie; del grande sogno che ha di scavare fino ad arrivare dall’altra parte del mondo per dimostrare che la gravità si può raggirare; di tempo; di Milano; di alberi; di una ragazza trasparente. In totale, è venuto un disco che, dice lui, “parla di grandi imprese mandate in fumo con l’animo in pace”, di “festeggiare più le linee di partenza dei traguardi”. E’ qualcosa di molto diverso dal sacrosanto rifiuto del risultato, del successo, della guerra da vincere che da anni veniamo indotti a pensare che sia la vita. Un rifiuto che è cantato in moltissimo rap, interpretato in moltissimo indie, denunciato nella retorica della resilienza che l’ha trasformato in un elogio della debolezza che ha stuccato e, peraltro, rischia di ispirare persecuzioni ai danni dei belli, degli esilaranti, degli irresistibili.

 

Il punto di Lucio Corsi non è sanare un disagio. Il punto di Lucio Corsi è l’avventura. Quella incontro alla quale la sola ambizione che ti spinge è la curiosità. Nessuna calcolatrice, nessun interesse. Lucio Corsi l’avventura ce l’ha negli occhi, forse perché è cresciuto in Maremma, in una famiglia di ristoratori e una mamma pittrice, figlio unico con tre cani che hanno nome e cognome. Da qualche anno vive a Milano, dove soffre molto il fatto che i parchi siano recintati (“Dove pensate che possano scappare gli alberi?”). E’ un ecologista, forse nel sangue ha un po’ di clorofilla, fatto sta che ci sono alcuni suoi versi che sembrano scritti da una pianta, non da un ragazzo. Come una pianta, Lucio Corsi è fuori dal tempo e dentro allo spazio. Ha 26 anni e la cosa ha un peso non per lui ma per noi, che il dato generazionale lo dobbiamo pur leggere.

 

E’ incredibile che nel grande prato verde della musica italiana nuova, quella con la trap, il rap, l’hip hop e i Rita Pavone sempiternamente rock’n’roll, sia nato questo ragazzo così bizzarro, che non dice niente in cui sia possibile riconoscersi, ma solo cose con le quali si possa evadere, volteggiare.

 

Tutto cattura l’attenzione di Lucio Corsi, l’ordinario e lo straordinario, il davanzale e la bora, il lampione e il fantasma, il treno e il bosco. Ogni cosa, per lui, è animata.

 

Nel disco precedente ha cantato gli animali del bosco, in questo il lato fantastico delle cose che ha cercato per non ingrigire inurbato a Milano. Fa un glam rock cantautorale a volte da orchestra, altre da carillon; è chiaro che ha ascoltato Conte, Bowie, Newman, Giurato, ma non assomiglia a nessuno di loro, perché si può essere spugne e si può essere foglie, e Corsi è foglia.

 

Ha suonato a Roma, domenica scorsa, in una delle sale dell’Auditorium Parco della Musica che non hanno la forma di branchia, o di ventaglio, e non hanno un palco rialzato. Questo, le luci blu, l’organo Hammond, la band di trovatelli glam, lui un po’ Semola e un po’ Ziggy Stardust, tutto questo ha fatto del concerto il caleidoscopio che è stato – e non c’era uno smartphone puntato sui musicisti a rovinare tutto, notizia. La data era quella che era – l’inconsolabile primo marzo che da otto anni ci tocca di vivere ricordando che è morto Lucio Dalla – e il momento era quello che è – con il coronavirus e il paese bloccato. Lui non ha fatto cenno a niente, ha suonato con i suoi fogli in mano pieni di versi che recitava, cantava, derideva, incompiuto e un po’ goffo com’è; genderfluid per animo e corpo, non per etichetta come Achille Lauro; ben vestito per alto senso dello show e non per dichiarazione programmatica. Ha detto: “In riva al mare avviene un baratto tra le onde che rilasciano conchiglie e la spiaggia che cede loro le sue orme” prima di cantare “Cosa faremo da grandi?”, il pezzo pilota di questo disco-racconto sugli elementi della terra, su cosa possiamo fare posando sulle cose gli occhi e non i progetti. Una delle tante che lui propone è questa, la riportiamo per provare a rendere come funziona la testa di questo musicista eccezionale: quando un ragazzo è troppo leggero, anziché mettergli i sassi nelle tasche per evitargli di volare, mettergli le ali. E’ un buon metodo, un’ottima metafora, una stupenda poesia, il racconto fulmineo di cosa non sappiamo fare e vedere, ma è soprattutto una splendida canzone, una di otto.

 

Non moriremo trapper, ma buttando nel vento il lavoro di anni, perché nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi. Bellissimo.

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