Un Onegin di grazia

Jacopo Pellegrini

Il dramma di un uomo superfluo, come fosse già Čechov. L’opera romantica del Čajkovskij apostolo di Mozart in scena al Teatro dell'Opera di Roma

Scoprire nei geni riconosciuti le chiusure preconcette, la stoltezza dei comuni mortali, non so a voi, a me provoca rabbia e disagio. A che serve un’intelligenza fuori del comune se non ti mette al riparo dalla bischeraggine? Prendete il caso di Vladimir Vladimirovič Nabokov, aristocratico, scrittore e critico letterario (in più lingue) tra i sommi, entomologo e teorico degli scacchi tra i migliori e, purtroppo per lui e per noi, sordo come pochi. Fino al punto di definire “Evgenij Onegin” di Čajkovskij una “sciocchezza”, e “raffazzonata” per giunta. Vero è che Nabokov non amava la musica; e poi, la villania riservata alle “scene liriche” del compatriota gli serviva a un duplice scopo: liquidare le direttive musicali del Partito comunista sovietico, per il quale Čajkovskij, morto un quarto di secolo prima della rivoluzione, continuava a essere il modello estetico cui conformarsi, ed esaltare nel contempo la grandezza incommensurabile della fonte letteraria ridotta a libretto, vale a dire l’omonimo romanzo in versi di Aleksandr Sergeevič Puškin, da Nabokov tradotto in inglese e commentato, occorre ammetterlo, in maniera superba. Del resto, svillaneggiare la riduzione teatrale, compiuta dallo stesso Čajkovskij insieme all’amico attore Konstantin Stepanovič Šilovskij, è sempre parso d’obbligo agli intendenti: “Indubbiamente una musica notevole – scrive Turgenev, da Parigi, a Tolstoj nel novembre 1878 –; i passi lirici e melodici sono particolarmente belli. Ma che libretto! Pensi: i versi di Puškin che si riferiscono ai personaggi sono messi in bocca ai personaggi stessi”. Che a un letterato russo il trattamento usato al classico dei classici della letteratura nazionale sembri quantomeno disinvolto si può capire, guai però a prenderlo per semplicistico o convenzionale.

  

Negli anni Sessanta dell’Ottocento dapprima Aleksandr Sergeevič Dargomyžski con “Il convitato di pietra”, poi Modest Petrovič Musorgskij nella sua scia con “Il matrimonio” vollero musicare un testo teatrale, di Puškin e rispettivamente di Gogol’, senza passare per una mediazione librettistica. I due spartiti restarono incompiuti, per la morte dell’autore il primo, per difficoltà estetiche e tecniche il secondo, ma la strada era aperta per un nuovo filone operistico che sul momento i russi battezzarono opéra dialogué (lo stile recitativo prevale sul canto spiegato a garantire l’intelligibilità delle parole) e i tedeschi nel Novecento avrebbero rinominato “Literaturoper” (ponendo l’accento sull’autonomia originaria del testo verbale). Non sorprenderà pertanto che i due esemplari più importanti di teatro musicale apparsi in Russia nel decennio 1870 abbiano tenuto presente la lezione dell’opéra dialogué: nel “Boris Godunov” (’74) Musorgskij utilizzò molti pentametri giambici del dramma in 25 scene di Puškin, e lo stesso fece Čajkovskij coi tetrametri giambici, riuniti in strofe di 14 versi, dell’“Onegin” (composto tra il ‘77 e il ‘78, inscenato a Mosca l’anno dopo). Il fatto è noto a slavisti e musicologi, ma salvo rare eccezioni non li ha instradati verso la verità. Mentre infatti Musorgskij (e prima di lui Dargomyžski) viene universalmente considerato un campione di realismo, seguace di Nikolaj Gavrilovič Cernyševskij (“la bellezza sublime è racchiusa soltanto nella vita”), Čajkovskij inclinerebbe nel peggiore dei casi al sentimentalismo, nel migliore a un “gioco dei sentimenti celebrati in sé e per sé, nella loro combustione pura” (Fedele d’Amico); un’operazione della memoria, infine. Čajkovskij è anche questo, si capisce: a marcare la distanza che lo separa dagli anni di Tat’jàna, Onègin e Lenskij, almeno in parte coincidenti con quelli in cui Puškin scrisse e pubblicò il romanzo (1823-31), bastano le riforme socio-politiche introdotte dallo zar Alessandro II. Una Russia cambiata, quindi? Solo in parte e non così tanto da aver cancellato le tracce di un passato aureolato d’incanto come tutti i passati, tracce ben presenti negli stili di vita delle classi privilegiate, quelle di Puškin e di Čajkovskij (la dacia e le feste in campagna, i balli mondani in città, le convenzioni sociali e le affettazioni intellettuali…). Anche lo sguardo di quest’ultimo è perciò impregnato di realismo, il filtro attraverso il quale, fin dal 1845, il critico letterario Vissarion Grigor’evič Belinskij (1811-48) aveva letto l’“Onegin” puškiniano, proclamandolo “enciclopedia della vita russa e opera nazionale in sommo grado”. Una formula che col senno di poi può essere applicata anche alla trasposizione teatral-musicale di Čajkovskij, che in “Russia […] è come da noi ‘La traviata’” (Beniamino Dal Fabbro).

 

Quanto all’“enciclopedia della vita russa”, si potrebbe persino azzardare che nel I atto, basato sui capitoli dal II al IV del romanzo, il compositore accentui l’elemento agreste sia per il tono tra il popolare e il liturgico conferito agli interventi della njanja (la tata), sia col doppio coro di contadini – lento interno e rapido sulla scena – introdotto nel quadro iniziale e assente nell’originale, da cui invece provengono il riferimento al pastore che al suono dell’oboe e poi del fagotto (corno in Puškin) annuncia l’alba subito dopo la Scena della lettera (quella d’amore scritta da Tat’jana a Onegin) e il canto delle contadine in apertura e chiusura del terzo quadro. Benché poi il trattamento orchestrale di questi cori sia tutt’altro che ingenuo e popolaresco, sinfonico anzi e squisito, a tratti addirittura sgargiante.

 

Quanto alle classi elevate, occorre innanzitutto rilevare come nel disegnare l’indole dei due protagonisti l’interpretazione di Belinskij sia seguita ancora una volta alla lettera. Tat’jana (soprano: nella versione in scena fino a oggi all’Opera di Roma Marja Bajankina, solida) vero “tipo della donna russa”; Onegin, un “egoista contro voglia” segnato dal fatum, il destino ineschivabile, dettato in questo caso non dalla Moira o dalle parche ma dalle regole oppressive dell’alta società (strofe XII-XIII dell’VIII capitolo trasferite in prima persona nel III atto e cantate benissimo dall’eccellente baritono Markus Werba): in pratica, il primo degli “uomini superflui”, di cui pullula la letteratura russa, esempio insuperato l’Oblomov di Ivan Aleksandrovič Gončarov (1859). Mentre Lenskij, l’ingenuo impulsivo poeta innamorato di Ol’ga, a Turgenev sembrava addirittura “maturato, qualcosa di più che in Puškin”: idea non recepita dai tenori della scuola storica russa – Sobinov, Kozlovskij, Lemešev –, che tendevano a farne un giovane elegiaco, ma accolta da cantanti più vicini a noi, per es. il muscolare Atlantov e, a Roma, Saimir Pirgu, corretto ancorché chiassosetto.

  

Proprio dai salotti aristocratici e altoborghesi Čajkovskij importa e sparge per il suo “Onegin” un genere musicale tipico del “folclore urbano”, quella romanza per voce e pianoforte (nell’opera ovviamente sostituito dall’orchestra) che alla “metà degli anni Settanta […] era divenuta un mezzo discorsivo di comunicazione” (Boris Asaf’ev, illustre musicologo d’epoca stalinista). I personaggi principali effondono i loro sentimenti pressoché sempre attraverso romanze tripartite, ossia in tre sezioni, la prima e l’ultima delle quali imperniate sulla stessa idea melodica (ABA’). Così è subito all’inizio col duettino interno tra Tat’jana e Ol’ga, la sorella minore, spensierata e civettuola (mezzosoprano: Julia Matočkina, brava); così è, poco dopo, per Ol’ga sola; così è per Gremin, l’anziano principe che sposerà Tat’jana (basso: John Relyea, ingorgato); così è anche, almeno in parte, per il cinico, blasé Onegin (i temi della sua aria nel quadro terzo del I atto recano l’impronta della lirica da camera, la struttura varia un poco). Emblematici, invece, i memorandi assoli di Lenskij; il secondo in particolare (atto II, quadro secondo) si vale dei versi “traboccanti di delirio amoroso” vergati e letti da Vladimiro in solitudine e “a voce alta” alla vigilia del duello con Onegin in cui perderà la vita (siamo nel capitolo VI, base insieme al V del II atto, mentre il III deriva dall’VIII capitolo). Čajkovskij, a parte un’aggiunta minima (il nome Ol’ga) e la ripetizione di qualche parola qua e là, non interviene sul testo se non riproponendo alla fine l’incipit testuale (e la melodia che l’accompagna), in modo da conferire al pezzo una duplice circolarità (frase introduttiva-romanza ABA’-coda con ritorno della frase introduttiva).

 

Anche per la Scena della lettera si attinge al romanzo; mentre però là è presentata in forma di testo scritto, nell’opera assistiamo al suo farsi: la drammatizzazione dell’atto, inevitabile a teatro, rafforza l’autenticità (fittizia) del documento umano. Sui 79 versi della fonte Čajkovskij interviene con un preambolo nuovo di 12, con un taglio interno di 11, con la solita replica di termini dal forte impatto melodrammatico (“mai”, “ti prego”, “E’ lui”), poi distribuisce il testo in una libera introduzione a carattere lirico (i 12 versi aggiunti) e in tre romanze con la sezione B in stile declamato: la rilevanza dell’episodio è posta in evidenza dal suo statuto di microopera (secondo Richard Taruskin, immane studioso di musica slava, le romanze sarebbero quattro, ma l’inizio non può essere assimilato a una romanza anche se ne possiede la mossa melodica) calata in una struttura complessiva tessuta di romanze o, in alternativa, di pagine orchestrali tripartite, sempre con ripresa della porzione iniziale, a sostegno dei recitativi. Perché un’altra caratteristica assolutamente eccezionale di Čajkovskij è che con lui l’opéra dialogué rinuncia al discorso musicale continuo del “dramma musicale” (Musorgskij, Wagner) per sposare il modello italo-francese dell’opera a pezzi chiusi collegati da recitativi, che svariano dal quasi parlato all’arioso. Gli schemi simmetrici scorrenti sotto i recitativi garantiscono, insieme alla forma romanza impiegata nelle arie e alla tripartizione di alcune delle danze (valzer, polacca, scozzese), leggibilità e chiarezza alla narrazione musicale: è qui che viene allo scoperto il Čajkovskij apostolo di Mozart, l’“asceta dello stile” (Mario Bortolotto) nel segno dell’euritmia e dell’eleganza (in questa chiave, all’Opera, si sono mossi con pertinenza James Conlon al podio e Robert Carsen alla regìa). Un altro accorgimento ancora contribuisce all’unità e continuità dell’opera: un numero piuttosto limitato di motivi conduttori legati ai personaggi e alle pulsioni erotico-sentimentali, ragion per cui questi motivi finiscono per somigliarsi tra loro: Čajkovskij infatti predispone melodie dal profilo per lo più discendente e comprese in un intervallo di sesta, scelto in quanto peculiare della romanza russa primottocentesca. E la sesta, come accordo, colora volentieri nelle sue varie forme l’armonia.

 

Il citato addio alla vita di Lenskij è sempre portato a esempio della distanza incolmabile di stile e tono che separerebbe l’opera dal romanzo: “un momento molto serio”, chiosa Taruskin, che “riflette un’epoca posteriore, molto più sentimentale”. Ma intanto siamo sicuri che Puškin sbeffeggi la vena poetica del morituro? Per Lotman e Bazzarelli il dubbio è ammissibile. E non è lo stesso Taruskin ad accorgersi che la scelta della forma romanza “pone evidenti limiti alla gradazione emotiva” di Lenskij? Ovviamente sì, il compositore si commuove per la “morte di un giovane pieno di doti a causa di un conflitto fatale con le regole imposte dall’idea che il mondo ha dell’onore” (da una lettera del 1883 all’amica e generosa sovvenzionatrice Nadežda Filaretovna von Meck); e ovviamente sì, le digressioni, riflessioni, descrizioni naturali, così abbondanti in Puškin, in un’opera lirica non possono starci. E tuttavia, anche in quest’intreccio ridotto all’osso di passioni asincrone o deluse, di fughe in sogni irrealizzabili, il registro ironico, primario nel romanzo, riveste una parte tutt’altro che secondaria. Ironia nel duplice senso di motteggiamento (la macchietta di monsieur Triquet; la gravità al confine col ridicolo di Zarèckij; la bontà un po’ ottusa di Làrina, madre delle ragazze; la torpidezza della njanja; la fatuità di Ol’ga; a momenti un eccesso di svenevolezza in Lenskij, di sentenziosità in Onegin, messo crudelmente alla berlina nel III atto quando, scopertosi innamorato di una Tat’jana ormai maritata ai massimi livelli, non sa far altro che ripetere l’esordio – parole e musica – della lettera inviatagli dalla ragazza), e di atteggiamento distaccato, sguardo a distanza sui casi rappresentati.

 

Prendiamo ancora le romanze: il genere salottiero non significa (non principalmente almeno) che le passioni cantate siano tutte a bassa “gradazione emotiva”, sì però filtrate attraverso le norme sociali, sottoposte a una prammatica di riti, di gesti e di precetti. E attorno ai singoli numeri musicali, talvolta ai quadri scenici, Čajkovskij stende come una rete di protezione, li mette in “cornice”, aprendoli e chiudendoli con uno stesso gesto o tema musicale, quasi a dirci che gli ardori o gli sdegni manifesti sono un po’ anche manifestati. Un solo esempio: il preludio dell’opera, tripartito e monotematico, espone ed elabora il motivo dell’amore come sofferenza di Tat’jana (una discesa da mi a sol: una sesta), ma incomincia e finisce con un semplice neutro impassibile sol pizzicato, dal contrabbasso in avvio, da tutti gli archi in fondo (un “segnale” che ritorna immediatamente nel duettino-romanza delle sorelle e riappare nella Scena della lettera).

 

In sostanza, “Onegin” è insieme un’opera romantica (l’afflato melodico, la centralità dell’elemento amoroso, l’ironia come in Heine o Hoffmann) e un’opera preneoclassica (dal Settecento Čajkovskij ha appreso il culto della misura, la cura artigianale della scrittura: di qui la devozione professatagli da Stravinskij). Soprattutto però è un’opera della crisi, nella quale si mette in discussione lo statuto stesso della comunicazione interpersonale (pochissimi i duetti, e in essi quasi mai si canta insieme, ma o sfasati – il breve canone tra Lenskij e Onegin, ormai “nemici”, prima del duello – o in successione). Gli individui vivono nel segno della rinuncia: “Il cielo ci dona l’abitudine in sostituzione della felicità”, è una massima di Chateaubriand, adattata e tradotta da Puškin, che Čajkovskij destina a Larina e alla njanja su un temino ballonzolante, quasi buffo. Rinuncia a vivere la vita e le pulsioni affettive, alla letizia di un incontro vero (“La felicità era così possibile, così vicina” mormorano un po’ a vicenda, un po’ all’unisono Tat’jana e Onegin nel quadro secondo del III atto). Dalla nevrosi della solitudine ci si difende con l’obbedienza alle regole, col rifugiarsi nella nostalgia o nell’ironia.

 

E’ già il mondo, prossimo venturo, di Čechov: i due si conobbero nel 1889, e lo scrittore propose a Čajkovskij di confezionargli un libretto, mai realizzato, dal romanzo di Lermontov “Un eroe del nostro tempo”. Un altro “uomo superfluo”, e non dei meno vistosi.