Romanzo ad alta quota

L’autoritratto di Noémi Lefebvre: riflessioni su un incontro e su se stessi, in volo tra Berlino e Parigi

Il tempo ha un sentore diverso, quando si viaggia in aereo: chiusi nella cabina sospesa, improvvisamente sembra una cosa normale passeggiare in mezzo alle nuvole, indovinare profili di coste, isole e montagne come se il mondo, che di solito intuiamo dal basso e per piccole frazioni, si fosse trasformato in un’immensa carta geografica dispiegata sotto di noi, seduti in mezzo ad altri passeggeri del cielo ad ascoltare sconosciuti in divisa che ci spiegano cosa fare in caso di emergenza e ripetono che nelle toilette non si può assolutamente fumare. E’ in quel tempo ipnotico e irreale che la musicologa Noémi Lefebvre ambienta “L’autoritratto in blu” (pubblicato da Gallimard nel 2009 e da poco in libreria per Safarà, nella bella traduzione di Susanna Spero): puro stream of consciousness che si legge nel tempo di un volo Berlino-Parigi, che racconta un volo da Berlino a Parigi e che, soprattutto, riesce a trasporre in cento pagine quella precisa sensazione aerea di un tempo azzurrino e concluso in se stesso.

 

L’autoritratto del titolo l’ha dipinto Arnold Schönberg nel 1910. Narici dilatate, colorito bluastro, sguardo sghembo, il volto del compositore in quel quadro è l’ossessione di un pianista tedesco-americano in cui la protagonista si è imbattuta a Berlino. Ora, sull’aereo che la riporta a Parigi, accanto a sua sorella che non fa che ripetere quanto le piaccia volare, lei non riesce a smettere di pensare al loro incontro, tenero e goffo, in un caffè elegante; e rievocandolo riporta a galla i ricordi di una vita, intessuti come in una partitura musicale da cui risulta che l’autoritratto blu è anche il racconto di sé che questa voce assorta e allegramente confusionaria modula nell’azzurro del cielo.

 

Quando chiedo a Lefebvre come le sia venuta l’idea di ambientare il monologo proprio dentro un aereo, la sua risposta lì per lì mi sorprende: “In realtà – mi dice – non è stata una scelta consapevole, non ci ho riflettuto: la prima frase è venuta fuori spontaneamente, poi è arrivata la seconda, mi sono piaciute, mi suonavano giuste e la cosa mi divertiva, così ho continuato. Molto presto l’aereo si è imposto come l’ambientazione migliore per raccontare la rielaborazione di un ricordo recente. Chi ha preso un aereo sa bene che durante il volo non si può fare altro, con i propri pensieri, che cercare più o meno di comprendere il senso del viaggio e della sua metafisica rovesciata: il cielo è il mondo fisico, lì, la terra è l’oltre. Molto presto ho capito che stavo scrivendo un libro che poteva essere letto esattamente nel tempo di un volo Berlino-Parigi e che quei 90 minuti gli avrebbero dato la sua forma, un po’ come “Mrs Dalloway” si svolge in una giornata, ed è il tempo della giornata a plasmarlo. Anche l’idea del flusso di coscienza fa pensare a Virginia Woolf; nel mio caso si tratta però di un racconto in prima persona organizzato in funzione di un itinerario berlinese, che davvero ho percorso”. Ecco spiegato come sia possibile questo romanzo che vive in un volo, e con il volo si fonde.

 

“Ho scritto il libro – mi dice ancora Lefebvre – immaginandolo come una partitura musicale. Avevo a disposizione una tastiera, proprio come un pianista; ma la mia tastiera produce lettere, non suoni. Eppure permette di costruire sequenze sonore complesse, seguendo regole di composizione relativamente note: l’armonia, il contrappunto, eccetera. Si potrebbe dire che si tratta di una creazione realizzata con i mezzi che avevo sottomano. Il tema era facile da trovare: questa è una storia vera! Mi bastava solo ricordare con precisione quello che era successo, e sviluppare l’intreccio trasformandolo in qualcosa di un po’ più elaborato del semplice ricordo che fluttua nella mente e si lascia pensare per distrazione”.

 

Leggendo l’autoritratto, proprio come capita quando si entra in confidenza con qualcuno che ha un carattere molto forte e molto idiosincratico, ho avuto l’impressione che la voce di questa sconosciuta si cimentasse in una vera opera di seduzione. E’ seduttivo il suo humour, ma anche la sua sincerità, e naturalmente la civetteria con cui si rimprovera la tendenza a parlare troppo – e però poi parla, parla, parla. Chiedo a Lefebvre se lei pensi alla scrittura come a uno strumento di seduzione. “In realtà, no – mi risponde lei – Intanto, molti lettori trovano che questa ragazza parli effettivamente troppo, e si affrettano a richiudere il libro! Ma poi, la scrittura è un modo di dire il reale, non di appropriarsi di un potere, mentre la seduzione non è quasi mai slegata dal potere…”. Il che è senz’altro vero; anche se qualche potere seduttivo secondo me bisogna averlo, per costringere pacifici lettori sedentari a salire con la mente su un volo Berlino-Parigi. Quanto alla natura sinestetica di quest’autoritratto che mescola pittura, letteratura, musica: “Tutti questi settori della percezione e della creazione non sono separati che a livello istituzionale, dai ministeri e dalle discipline universitarie, ma la mente spazia liberamente, senza preoccuparsi di specializzazioni. Le barriere – dice Lefebvre, che le sa infrangere con grazia – esistono solo per quelli che le amano”.

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