Ricordare Woodstock ai tempi di Spotify

Così la musica rock è diventata un fenomeno di massa

Questo articolo è stato pubblicato su Cattolica News.

 

Solo venticinque giorni sono trascorsi tra il momento in cui Neil Armstrong ha posato il piede sul suolo lunare e quello in cui Richie Havens ha aperto il festival di Woodstock: due momenti che hanno segnato un’epoca di grande creatività e che vengono periodicamente celebrati per la loro capacità simbolica di incarnare l’apice di un periodo e di una situazione irripetibile.

 

Come ogni anniversario, anche quello di Woodstock dà luogo a nostalgie, che lo richiamano in vita artificialmente, attraverso le memorie, le tracce sonore e visive, le riflessioni sociologiche, e nello stesso tempo lo allontanano, nel modo in cui l’evento viene inevitabilmente relegato alla particolare situazione storica in cui ebbe luogo.

 

Al di là del mito che il concerto di Woodstock ha prodotto, ai tempi di Wikipedia e Spotify esso può essere documentato per quello che specificamente è stato, sotto il profilo musicale, per una percezione più completa e distaccata. Naturalmente, prendere in considerazione l’aspetto musicale di Woodstock è limitativo, in quanto il festival si caratterizzò, fin dalla sua ideazione, come un momento di affermazione di valori fondati sul pacifismo, la liberazione sessuale, una concezione alternativa di vita comunitaria, ma la musica ne costituiva comunque il centro, per la capacità che essa aveva, in quel momento, di catalizzare le energie individuali e collettive di una generazione.

 

Risulta oggi facile, anche senza ricorrere all’ampia letteratura che Woodstock ha prodotto, verificare la sequenza degli oltre trecento brani che vennero suonati nell’insieme delle performance che si sono succedute per tre giorni e tre notti sui terreni concessi da un allevatore del nord-est, Max Yasgur, e vi è chi, al di là della presenza di materiale filmato che va molto oltre quello poi usato per il celebre film, uscito nel 1970, ha raccolto playlist di oltre 20 ore, in parte tratte dalle esecuzioni allora effettuate, in parte integrate da registrazioni di studio. Tenendo conto delle ricostruzioni filologiche e del clima trasmesso dai filmati d’epoca, quale è il carattere specificamente musicale di quello che allora avvenne?

 

Si può partire da un dato, riguardante le assenze. A Woodstock mancavano almeno tre dei principali punti di riferimento per la musica degli anni Sessanta: i Beatles, che da tempo avevano smesso di esibirsi in pubblico ed erano impegnati, nell’ultima fase della loro attività, a realizzare un capolavoro come Abbey Road (la nota fotografia sulle strisce pedonali è dell’8 agosto); Bob Dylan, che disdegnava di essere preso a bandiera generazionale; e i Rolling Stones, che avevano presto assorbito la morte di uno dei loro componenti originali, Brian Jones, avvenuta il 3 luglio di quell’anno, come dimostra il celebre concerto a Hyde Park, avvenuto due giorni dopo, ma che preferivano anch’essi una strategia autonoma nella programmazione dei  loro concerti-spettacolo.

 

La loro presenza, soprattutto di Beatles e Dylan, era riconoscibile attraverso le cover di brani da loro composti - uno per tutti la versione di With a little help from my friends di Joe Cocker -, ma era anche nello spirito di alcuni interventi e nelle relazioni intercorse fra autori e gruppi che rappresentavano i rispettivi generi, come Joan Baez, The Band o anche Arlo Guthrie, sul lato dylaniano. Per quanto riguarda invece ciò che ha caratterizzato specificamente la musica di Woodstock si può dire che in primo piano si pone la definizione di una identità americana, che passa per la ricerca di radici nella tradizione del cantastorie/cantautore (da Arlo Guthrie, appunto, a John B. Sebastian, già leader dei Lovin Spoonful), attraverso aspetti folk-blues tradotti in chiave rock, come per i Canned Heat e i Butterfield Blues Band, ma si dovrebbe ricordare la presenza dei Creedence Clearwater Revival o dei Blood, Sweat & Tears, tra i gruppi maggiori del periodo, non documentata nel film e nei dischi che ne sono stati tratti. Il volto di un’America che andava risolvendo, così poteva apparire, alcune sue contraddizioni nel messaggio libertario di Richie Havens, con il “mantra” Freedom ripetuto all’ossessione, o con le inclinazioni soul di Sly & the Family Stone, segnali di un’integrazione che sembrava raggiunta, fino alla presenza originale, nelle connessioni tribali, di Santana. L’America che tentava una “rivoluzione” pacifica, nella musica corale dei Jefferson Airplane o del quartetto Crosby, Stills, Nash & Young (Wooden Ships è un altro degli inni di quell’estate), nella energia di Janis Joplin, nei dilatati viaggi lisergici dei Grateful Dead.

 

D’altro canto, la nuova ondata proveniente dall’Inghilterra si concentrava attorno a due dei gruppi in grado di orientare verso forme di rock più arcigno, dove la chitarra veniva usata in modo violento e deciso, con The Who e Ten Years After. Proprio le loro performance, documentate in alcuni momenti caldi nel film su Woodstock, valgono a mostrare come la gestualità del concerto rock giunga in quel momento a completa maturazione, con gli assoli, le acrobazie, i microfoni lanciati in aria, atti a completare l’esecuzione musicale in una intrinseca spettacolarità, così come la forza di coinvolgimento di Country Joe McDonald nel pronunciare il suo proclama contro la guerra in Vietnam, rilanciato dall’inno antimilitarista Volunteers dei Jefferson Airplane, risultano essere tra i segnali di una evoluzione del significato del concerto rock attraverso il mezzo di comunicazione musicale e performativo, appunto. Quello che, a giochi quasi finiti, la mattina di lunedì 18 agosto, trova la sua incarnazione finale, già venata di nostalgia, nella storpiatura dell’inno americano dalla chitarra di Jimi Hendrix.

 

Certamente, per la musica rock, soprattutto nella sua versione dal vivo, c’è stato un prima e un dopo Woodstock, e se quell’evento per certi versi conclude la spinta di un decennio marcato dalle forti idealità, per altri diventa il punto di partenza di una concezione della musica rock come fenomeno di massa, sia o meno innervata da ragioni forti di identificazione che ne amplificano il messaggio.

 

Ascoltare le tracce dei tre giorni di concerti tenuti nella località a qualche decina di chilometri da Woodstock può ancora rivelare aspetti vitali originali, soprattutto perché in quei giorni la storia della musica rock fra gli anni Sessanta e Settanta ha conosciuto un momento di confronto che in seguito è stato riproposto, in altro modo, dalle diverse versioni di “live aid” (Concert for Bangla Desh, 1971; Live Aid, 1985; Nelson Mandela 70th Birthday Tribute, 1988; Live 8, 2005…).

 

Di diverso, per come ci è stato tramandato da immagini e racconti, vi era la partecipazione diretta di un pubblico che ha contribuito, anche per mezzo di improvvisazioni, alla sua riuscita e risonanza.

 

Resta, nel pensare all’anniversario tondo, la forte impressione del tempo trascorso, tanto che può apparire strano parlare ai giovani studenti di oggi di come si divertivano e agivano i giovani della generazione dei loro nonni.

 

Francesco Tedeschi

docente di Storia dell’arte contemporanea nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Cattolica

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