I Massimo Volume per la prima volta diventano un trio formato solo dal nucleo storico: da sinistra Egle Sommacal, Emidio Clementi e Vittoria Burattini (foto Simone Cargnoni)

Il cercatore d'oro

Enrico Cicchetti

Il nuovo album dei Massimo Volume: piccole storie universali, imprevisti e tanta acqua. Chiacchierata con Emidio Clementi

Se negli anni Novanta eri una band alt-rock di successo, oggi è probabile che i tuoi fan siano persone di mezza età, con un po’ di soldi da spendere e una soffitta piena di ricordi sfilacciati: il rischio “operazione nostalgia” è dietro l’angolo. Il panorama musicale è cambiato ma continuiamo ad aspettare inflessibili la nascita dei nuovi Fugazi, che probabilmente non arriveranno mai. Intanto ci si crogiola in un atteggiamento passatista alla Make Rock Great Again. Ci siamo abituati ai regolari reunion tour mentre la nostalgia diventava una delle condizioni definitive del genere, ormai forse anacronistico e provinciale, sicuro e confortevole, anche nelle sue forme più indisciplinate.

 

Impercettibili sfumature esistenziali e atmosfere inafferrabili: la firma di una band che fonde post-rock e letteratura

  

Al contrario, il ritorno dei Massimo Volume è il ritorno di un gruppo che, pure trasformato, si è mantenuto in ottima forma e che ritrova i suoi spazi senza cedere nemmeno un palmo al voyeurismo retrò. A sei anni dall’ultimo album, è uscito per la 42 Records Il nuotatore: un disco di tratteggi. Pieno di quelle storie piccole che diventano universali, di quelle impercettibili sfumature esistenziali e di quelle atmosfere inafferrabili che da sempre sono la loro cifra. La firma di una band che, meglio di qualunque altra in Italia, è riuscita a fondere il post-rock con testi letterari. Più simili a William Faulkner o Raymond Carver che al solito vocabolario da paroliere tricolore. Il senso, anche misero, di una vita in quattro minuti scarsi di chitarra, basso e batteria. “Quello che sappiamo fare è questo”, dice al Foglio Emidio Clementi, leader dei Massimo Volume. E lo fanno bene. Per la prima volta diventano un trio formato solo dal nucleo storico della band (insieme a Clementi, Vittoria Burattini ed Egle Sommacal) e dipingono un affresco minimale ma vibrante. Non ci sono rimpianti, nel loro recitato crudo e ruvido. C’è tanto altro: il freddo, il caso, gli imprevisti. E l’acqua. Che porta con sé anche il desiderio represso di essere travolti contro la nostra volontà.

 

    

    

“Con l’acqua bisogna venire a patti, serve un percorso di conoscenza”, dice Clementi (per tutti Mimì) voce e basso del gruppo. Questo irrequieto cinquantenne, la cui voce ipnotica per molti giovani nell’Italia catodica e pulp degli anni Novanta ha rappresentato un approdo sicuro, con i suoi cappelli a tesa larga, gli occhiali da vista e i Kent collar, è quanto di più lontano si possa immaginare dallo scapigliato antieroe del grunge o dallo stereotipo del rocker irriverente. “In valigia metto sempre una camicia in più – scherza – Non sia mai che me la sporco di sugo”. L’acqua, insomma. Mimì dice di chiedere al suo analista, perché non sa come mai il suo nuovo disco ne sia intriso. Forse è perché “vengo da una città di mare, San Benedetto del Tronto. Diversa però da altri paesi del litorale adriatico per via del porto: ci si può immaginare più facilmente un altrove”. C’è una poesia, La spiaggia, nella quale Eugenio Montale cerca di rivivere, nel chiarore diffuso dell’alba sul lungomare, “l’exploit di Robinson Crusoe”: cerca la solitudine più completa e selvatica. L’esperimento fallisce nel “cafarnao delle carni, dei gesti e delle barbe” che invade il suo isolamento. C’è qualcosa di tutto questo nel nuovo album dei Massimo Volume. A partire dalla copertina: una spiaggia affollata di solitudini ben assortite. Forse perché la vita può essere “tranquillamente racchiusa in un banale quadretto balneare” – come recita un altro tesoro musicale racchiuso in Cattive abitudini, il loro quinto disco, che ha compiuto nove anni e sembra ieri.

   

Il disco ricorda una poesia nella quale Montale cerca nell'alba sul lungomare la solitudine più completa e selvaggia, alla Crusoe

 

Può essere noioso ascoltare gli artisti promuovere i frutti del proprio lavoro. Ma Clementi lo fa con grazia, risate e metafore. Anche in questo disco, come nei precedenti, la letteratura e la musica si mescolano. La canzone che dà il titolo all’album, per dirne una, è un omaggio all’omonimo racconto del “Cechov dei sobborghi”, John Cheever. Uno dei migliori mai scritti dall’autore, apparso per la prima volta 55 anni fa sul New Yorker. E’ la storia di Ned Miller, un uomo bianco, agiato, istruito e sicuro di sé, appena oltre la mezza età, che decide di attraversare la contea a nuoto, passando attraverso le piscine di tutti i vicini. A ogni tuffo una scheggia di passato viene a galla; quello che compie in realtà è uno spostamento verso la disillusione. Attraverso la percezione della scomparsa della memoria e la perdita del senso del tempo. “Volevo rielaborare la spinta che Cheever imprime al suo nuotatore, provare ad avvicinare la sua storia alla mia”, spiega Clementi. Trasporre in un contesto italiano una parabola ambientata tra la middle class americana dei cortili sul retro con barbecue, delle villette tutte uguali (quelle delle Little boxes di Malvina Reynolds). Tentativo riuscito: “Nel cinema ha già funzionato; Coppola è riuscito ad ambientare Cuore di tenebra nel Vietnam degli anni Sessanta. Mi sono detto: perché non provarci con una canzone? L’inquietudine del nuotatore di Cheever rimane, ma il nocciolo del racconto diventa la placida serenità dell'ignoranza, distrutta in quell’attimo in cui scopri il velo che nessuno ha il coraggio di scostare e vedi un’altra realtà. Nel pezzo c’è anche altro, ad esempio una cosa che mi terrorizza: l’idea che gli altri hanno di me. Nel romanzo La forza del passato di Sandro Veronesi, il protagonista origlia al citofono e sente i propri amici, appena usciti da una serata apparentemente piacevole, criticare in maniera violenta e inaspettata lui, sua moglie, suo figlio, la sua casa”. Ma alla fine la alzeresti la cornetta del citofono? “Sì, in fondo voglio sapere, voglio arrivare alla fine dei miei giorni che due o tre cose posso dire di averle imparate”. Cos’altro ti spaventa? “La pagina bianca”.

   

Anche il lavoro creativo, per Clementi, “si porta dietro una dose di inconsapevolezza. Mi ricordo una chiacchierata con un direttore di orchestra al quale chiesi se scrivesse anche musica sua. Rispose: ‘Come fai a scrivere qualcosa di tuo, dopo che hai diretto la Nona di Mahler?’ Per scrivere ci vuole dell’incoscienza, se guardi a tutto quello che è stato fatto prima di te la conoscenza diventa un peso”.

   

I Massimo Volume: da sinistra Egle Sommacal, Emidio Clementi e Vittoria Burattini (foto ©Simone Cargnoni) 
     

Clementi è un cercatore d’oro: “Scrivi due frasi, due versi, per vedere se c'è dentro qualcosa che luccica, te ne freghi del perché lo fai. Quando ti metti a scrivere devi recuperare ciò che ti si è sedimentato dentro”. E’ un faticoso frugare nel buio per afferrare qualcosa di nascosto, come in una miniera: “I miei testi spesso nascono da un dettaglio, da qualcosa di minimo. La ditta di acqua minerale, ad esempio, è una di quelle storie che in famiglia si raccontano sottovoce: quella di mio zio Alberto. Ricordo il suo sguardo avido mentre seguiva le innocenti partite a carte tra me e mio fratello. Mia zia lo teneva d’occhio. ‘Guai a te se ti vedo giocare’ lo ammoniva. Solo una volta diventato adulto ho scoperto che la ditta di acqua minerale dove lui lavorava come contabile, anni prima era stata sua. L’aveva persa a carte. Ho parlato dei fatti miei senza pudori: ora che mi trovo costretto a parlarne ne sono geloso ma ormai ho pubblicato il disco, non possono più essere storie private: è paradossale”.

   

 

C’è un altro pezzo, Fred, che prende spunto da un live di Leo Ferré: “Volevo ripetere quel momento che negli ascolti mi ha sempre emozionato. Non sapevo sarebbe diventata una passeggiata con Nietzsche a Venezia. Vedremo domani nasce invece da una poesia di Milo De Angelis: un aggancio sufficiente a farmi superare l’angoscia del foglio vuoto. Allora mi ci aggancio con tutte le forze. Poi ci sono le volte in cui tutto si arena, in cui non ci trovi nessun filone dentro. Quando guardo indietro a una carriera di trenta anni, immagino un infinito momento di impasse, una trafila di parole non trovate. Allora vado su Wikipedia, a verificare che ho fatto davvero qualcosa”.

   

“Scrivi due frasi, due versi, per vedere se c'è dentro qualcosa che luccica. Provi a recuperare ciò che ti si è sedimentato dentro”

 

Qualcosa l’ha fatta, sì. Al di là della pagina wiki basterebbe riguardarsi la decina di romanzi e gli altrettanti dischi che Clementi ha alle spalle, sei dei quali con i Massimo Volume. I primi quattro album sono usciti in un momento in cui il panorama musicale italiano stava cambiando e ne hanno segnato la trasformazione, con la propria estetica fatta di voce densa e versi iperrealisti. Parole recitate e non cantate, scandite sui grovigli elettrici e le spirali ipnotiche delle chitarre, sulle geometrie imponenti della ritmica. Se l’idea di “musicista indipendente” ha ancora una qualche influenza, forse è per quell’atteggiamento di integrità senza compromessi – tramandato da generazioni che si identificavano con eroi punk – che oggi può sembrare limitante a chi non ne fa parte. Non fosse per gli avambracci tatuati – GRAVITY BLOCKS MY SCREAMS, canta in stampatello la Jim Carroll Band, sporgendosi dalla sua spalla sinistra – Emidio lo prenderesti per un elegante professionista, un architetto, un “musicista contabile”, a voler citare gli Afterhours, l’altro grande gruppo che ha segnato la storia del rock indipendente in quel fantastico triennio 1993-1995. Quando sembrava che qualche rivoluzione musicale fosse in atto. Nel 1994, mentre un elettricista trovava il corpo di Kurt Cobain con un buco di fucile in testa, qui da noi usciva il primo disco dei Csi, debuttavano Marlene Kuntz e Almamegretta, gli Afterhours passavano all’italiano con il decisivo Germi. E i Massimo Volume venivano messi sotto contratto dalla Wea, l’attuale Warner. “Quando uscì Nevermind le case discografiche italiane speravano di poter esportare Seattle a Firenze, a Bologna”, ricorda Clementi, che con il cantante dei Nirvana condivide anche la data di nascita (20 febbraio 1967, dev’essere successo qualcosa di pazzesco nella nursery del rock). “Ma l’Italia non ce l'ha fatta, nonostante dei bellissimi dischi”.

   

“Se penso ai miei trent'anni di carriera, immagino un infinito momento di impasse. Allora vado su Wikipedia, per verificare”

 

Questi sono gli anni della trap e del nuovo pop italiano, quello che ha fatto diventare gli struggimenti brandizzati dei Thegiornalisti, di Calcutta e di Cosmo, fenomeni da palasport. “Ho due figlie, la più grande di 12 anni”, dice Clementi. “Lei la trap la ascolta e devo dire che anche se noi siamo la cosa più pallosa e loro sono la più fruibile, gli ingredienti sono gli stessi. In quest’ultimo disco, per esempio, cercavamo un registro nuovo, anche ironico, soprattutto sensuale. Sensualità è una parola strana se pensi alla nostra musica, che a molti sembra austera. Allora ho lavorato più sulle rime rispetto al passato”. Ti sentivi un rapper? “No, dai! Ma la rima dà un tono scanzonato anche a L’ultima notte del mondo, che è una specie di favola nera, la canzone più cupa dell’album. Si fa l’errore di pensare al prima come a un periodo d’oro. Quando ero alle superiori, nonostante fosse il periodo del punk e della new wave, eravamo tre o quattro ad ascoltare quella musica. Non credo che a tanti ventenni di oggi fregherà nulla del nostro album, ma alcuni ci sono. Penso a quelli come i miei amici ai tempi della scuola. Siamo stati più forti dei qualunquisti e potrebbe succedere ancora. Per fortuna, a noi piace esser strani. Un mondo che ascolta sempre i Massimo Volume sarebbe un orrore. Il rock ha ancora senso? A volte me lo chiedo. In fondo credo che non morirà mai, se non altro perché ci sono delle nicchie incrollabili e perché cromaticamente è quello su cui si può lavorare di più. Ma forse inciderà sempre di meno sulle vendite. O magari chissà, tra un po’ arriverà un’ondata di recupero”. Purché non sia solo rimpianto, nostalgia e memorabilia feticista. Purché produca qualcosa di veramente nuovo, immerso nella realtà. “Tempo fa guardavo su YouTube un’intervista a un video artista che diceva: ‘Creo mondi immaginari perché la realtà mi annoia’. Mi chiedevo se fosse un illuminato o un perfetto idiota. A me, a 52 anni, la realtà continua a stupire”.

 

  • Enrico Cicchetti
  • Nato nelle terre di Virgilio in un afoso settembre del 1987, cerca refrigerio in quelle di Enea. Al Foglio dal 2016. Su Twitter è @e_cicchetti