Guerra d'indipendenza pop

Simonetta Sciandivasci

Il riverito culto dell’indie ha scoperto i ritornelli facili e i clic a milionate e si è trovato di fronte a un falso dilemma: vendere l’anima o riderci sopra? Inchiesta sui giovani d’oggi che non scatarrano su nessuno e cercano la dipendenza in fondo al vuoto del loro io

"Non me ne andrò mai da questa casa, non lo voglio superare il complesso di Edipo!”. E’ il 1981, il mondo s’è sfasciato quattro anni prima, in tutti c’è un po’ di Zanardi, lo stronzo “guidato dal vuoto” dei fumetti di Pazienza, in Cina ha aperto la prima fabbrica di Coca-Cola, e Gianni Apicella, giovane regista d’insuccesso (Nanni Moretti in Sogni d’oro) ammette con strazio di non voler essere indipendente. Lo urla in faccia a sua madre. Trentasei anni dopo è oggi, il ‘77 è un quarantennale, i genitori tifano rivolta, il talento coincide con il successo, il precariato ha elasticizzato l’adolescenza, e Francesco Motta, 31 anni, musicista – di quelli della scena indie, cioè non prodotta dalle major – quando gli chiedono cosa significhi, per lui, indipendenza, risponde che non gli interessa e non lo riguarda visto che “i miei genitori mi hanno mantenuto per anni prima che arrivassi qui”. Lo dice in pace, con affetto. Questione materiale, niente psicanalisi, no Edipo. “Mamma e papà sono i miei capisaldi” è la sola cosa che ci risponde senza sbuffare, per il resto è tutto un “non so cosa c’entri, mah, boh, mi sono svegliato da cinque minuti, però non lo scrivere”. Tra i versi più amati di Motta c’è: la fine dei vent’anni è un po’ come essere in ritardo e Tommaso Padoa-Schioppa, quando Motta i vent’anni li cominciava, nel 2007, disse in Parlamento “mandiamo i bamboccioni fuori di casa”, inaugurando il “decennio di gaffe dei ministri sui giovani” (la Repubblica, marzo scorso).

 

Prima di Padoa-Schioppa, a schifare i giovani (ancora non li si chiamava millennial, ma la generazione era quella) ci avevano pensato gli Afterhours di Manuel Agnelli e gli Skiantos di Freak Antoni. Gli Afterhours: “Sui giovani d’oggi ci scatarro su / sabato in barca a vela / lunedì al Leonkavallo”: è il 1997, i no global sono in bozze; diventa chiaro che gli scrittori della Gioventù Cannibale non sbraneranno nessuno e rimarranno “cannibali coi denti da latte” (lo scrive l’Unità); Virzì affianca al protagonista di Ovosodo – secchione, povero, affidabile, spaesato – uno stronzetto coi rasta in testa, frasi come “voglio vivere tra le immondizie del mondo” in bocca e, davanti, un futuro apparecchiato dal papi.

 

 

Gli Skiantos: “Sono un ribelle, mamma, e per favore stira la maglietta, ho un concerto, mi serve quella rotta”: è il 2006, ci sono stati Seattle, Genova, Not in My Name, i No Moratti di “fuori le aziende dalla Scuola!” e “Il mondo deve sapere” di Michela Murgia ha raccontato all’Italia che i suoi laureati vendono cianfrusaglie per telefono. Visti da sotto, dai cunicoli dell’underground del punk rock demenziale e dell’alternative rock, i figli degli anni Ottanta in rotta contro rampantismo, villaggio globale e precariato, sono figli di papà che vanno a fare la rivoluzione con il patrocinio dei genitori, sfilando sotto – e non contro – un simbolo. Visti dalla superficie, invece, sono personaggi di Gabriele Muccino, nevrotici, smaniosi, disimpegnati e, soprattutto, soli, “come i numeri primi, strettamente uniti eppure invincibilmente divisi”. E’ la descrizione dei protagonisti del romanzo con cui, nel 2008, Paolo Giordano vince Strega e Campiello (La solitudine dei numeri primi). Giordano ha 26 anni e questo fa sì che l’opinione pubblica – ancora atterrita dal disagio giovanile che, per tutto l’anno precedente, gli editoriali avevano raccontato essere il movente di omicidi terribili (Garlasco, Perugia, le bestie di Satana) – incominci a riferirsi ai ventenni come a una generazione. Le indagini culturali su di loro, da quel momento, si moltiplicano. La diagnosi sancisce che i ragazzi sono depressi, annoiati, mammoni, ignoranti, esangui, nostalgici, inconcludenti, pavidi, smidollati: combacia più o meno con quella di Afterhours e Skiantos. Nanni Balestrini aveva scritto che “come nel ’68, ogni precedente egemonia culturale sulle nuove generazioni deve riconoscere la propria debolezza” (Blackout, 1979). E’ quello che proprio la sua generazione – gli ex sessantottini – manca di fare, appropriandosi, così, anche dell’esegesi del tempo di chi li ha succeduti. La reazione a questa usurpazione, però, è arrivata ed è adesso, a quarant’anni dal ’77 e cento dalla Rivoluzione d’ottobre, in coda al decennio delle gaffe sui giovani che sta dentro un ventennio di dileggio dei giovani. Non fomenta lotta politica e No globali, disobbedisce all’imperio paternalista che incita alla rivolta, ma scrive un ininterrotto album dove osa far rimare indipendenza e intraprendenza, tirare fuori l’underground alternativo dagli scantinati e portarlo in classifica, a Sanremo, al Primo Maggio, da Fazio, ficcare un trattino tra indie e pop e far annunciare che “alla fine è successo: c’è stato il ricambio generazionale nella musica popolare italiana” a “Robinson” dellaRepubblica (luglio scorso), tre anni dopo che Il Magazine aveva annunciato quello della classe dirigente (“la generazione dei trenta-quarantenni ha preso il potere, e ora?”).

  

 

Dall’album dei millennial, questo indie-pop della generazione faccio-da-me, però, viene fuori la voce di quelli che erano bamboccioni dieci anni fa, ma all’età adulta non ci sono arrivati solo da paria, pazienti psichiatrici, fuori corso, cervelli in fuga e “infelici mantenuti a New York” (si legga Class di Francesco Pacifico, Mondadori, 2014), ma pure da imprenditori di startup (in fondo, cos’è una startup se non un’azienda indie?), cantautori, editori (date un’occhiata a riviste come Dude Magazine o Effe, a case editrici come Black Coffee, Atlantide o Heket), che provano ad articolare un racconto indipendente da qualsiasi esegesi pre o post sessantottina, dallo storytelling, dal reality: un dire, da dentro, di chi è dentro, com’è la vita, che segno lascia e che segno lasciarle, com’è la commozione e quando scocca.

 

“Cosa racconteremo di questi cazzo di anni Zero ai figli che non avremo?”: è il 2008 e Vasco Brondi, sbarbino, urla questo verso dal palco del Mi Ami, con la sua chitarrina distorta e la recitazione infuocata.

 

 

Quell’anno, il festival Mi Ami (Musica Importante a Milano) è alla sua terza edizione, fa 15 mila presenze. L’anno prima (2007), il suo ideatore, Stefano Fiz Bottura, direttore della rivista Rockit, decide di eliminare la parolaindie perché “ci siamo resi conto che più che un vantaggio costituiva un limite” e di sostituirla con Importante. Sui volantini è scritto “tutta musica prodotta in Italia, balla e spingiti sotto i palchi, questo significa dar voce a un movimento: stile, coraggio e poesia”.

 

Dieci anni dopo, il movimento ha trovato la sua voce, ha scritto il suo libro e, secondo alcuni, anche il suo epilogo. Al Mi Ami di quest’anno si entrava e si sceglieva la propria scaletta tramite App; tra gli sponsor c’erano un Istituto di moda e design e l’azienda Dr Martens, quella dell’“anfibietto in tinta” degli Afterhours; il concerto di Liberato ha rivelato che Liberato non esiste, prestando il fianco a una operazione di marketing partita da Rolling Stones, che qualche mese fa gli aveva dedicato una copertina. Il giorno dopo, sui social del Mi Ami era in vendita “il giubbotto indossato da Liberato al suo primo LIVE!”.

 

Nell’estate dei tormentoni che non ritornellano “sole, cuore, amore” e arrivano dalle band indie (pardon, indie-pop), il Mi Ami non solo agisce da grande brand, ma si burla di se stesso. Nella parodia del video di Riccione dei TheGiornalisti (l’originale ha 42 milioni di visualizzazioni su YouTube), il batterista dice al cantante “L’indie è morto e lo abbiamo ucciso noi”.

 

A Tommaso Paradiso e ai suoi TheGiornalisti non viene perdonato di indossare il maglioncino in spalla sopra la polo, di essere un “Jerry Calà reincarnato”, scrivere versi orecchiabili e vacui, impiegare l’indie solo come una dicitura e orpello ganzo, rendendolo così nient’altro che una patinatura vintage, uno stilema riproducibile all’infinito. Anche i TheGiornalisti sono saliti sul palco del Mi Ami, due anni fa, quando un jingle come quello del 2009 – “ci piaccion quelli che suonano come i cani, questa non è musica, è rumore, voglio una chitarra che suoni come un trattore” – era già impensabile.

 

 

All’indie dei millennial si rimprovera l’aver domato un’espressione bisbetica, trasformandola in codice, aver contaminato un’eredità incontaminata, vendendola. Non ne fanno una giusta, questi millennial: se non fanno la rivoluzione, sono anestetizzati; se la rivoluzione la fanno con la maglietta stirata dalla mamma, anestetizzano la rivoluzione; se suonano il rock, anestetizzano il rock.

 

Quando Vasco Brondi sale sul palco del Mi Ami, nel 2008, ha 24 anni e non è troppo diverso dal ragazzo che, sei anni dopo, verrà citato da Matteo Renzi. Viene da Ferrara, si fa chiamare (lo fa tuttora) Le luci della centrale elettrica ed ha appena esordito con il disco Canzoni da spiaggia deturpata, pubblicato da La Tempesta, che la scena indie considera “più un collettivo d’artisti che un’etichetta”. Nell’indie, le cose sono sempre avversative, il loro senso è sempre la spola tra i termini di un contrasto. Tutto è più questo di quello, meno così di cosà, forse, circa, ma anche, non solo, però. Indie è ciò che non consegue dalle definizioni.

 

Elisa Casseri, scrittrice, che per la rivista Nuovi Argomenti segue la scena indie dei millennial, dice al Foglio: “Tutte le volte che non mi interessa classificare una entità per farla diventare un tipo, penso all’antinomia che Russell scrisse all’inizio del ’900 e che contribuì a infrangere il sogno positivista di Hilbert di ridurre la matematica a un sistema privo di contraddizioni. ‘L’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se stesso’: ecco, è da queste parti che mi sembra di trovare la definizione migliore per la musica indie che, infatti, non è un genere musicale. E quindi, siccome parliamo di un insieme di appartenenza caratterizzato da una non appartenenza, io non vedo altro modo che affrontarlo confondendolo con la chimica e dicendo che l’INDyHE è iodio, azoto, disprosio ed elio, qualunque cosa questo voglia dire”.

 

Se la definizione non esiste, poi, non vuol dire che tutto è permesso. E’ soprattutto questa l’obiezione della parodia (brillante) dei TheGiornalisti (dove, a un certo punto, il cantante dice “noi siamo indie, possiamo fare il cazzo che ci pare”). In matematica, le variabili indipendenti sono quelle che non entrano in relazione tra loro. In Amadeus di Milos Forman, quando Salieri sfoglia le stesure delle opere di Mozart e quasi sviene d’invidia per quanto sono perfette, dice: “Sposta una sola nota e si immiserisce tutto. Cambia una sola frase e la struttura crolla”. La musica, i musicisti non possono fare a meno della relazione.

 

“Non esiste niente di più rinfrancante in arte e nella vita quotidiana che potersi permettere il lusso di avere delle persone da cui dipendere e a cui dare dipendenza”, dice al Foglio Massimo Zamboni, che è stato chitarrista e compositore, insieme a Giovanni Lindo Ferretti, di Cccp e Csi. I punk, post punk, mica punk, quelli di “non studio non lavoro non guardo la tv non vado al cinema non faccio sport, chiedi al ’77 se non sai come si fa”. “Consorzio suonatori indipendenti (Csi) era un ovvio gioco di parole con l’acronimo della Comunità degli stati indipendenti, dopo il crollo dell’Urss. Era un nome imbeccato e noi eravamo indipendenti l’uno dall’altro: cavalcammo quel tratto per farne la nostra forza e non per fare dei distinguo, altrimenti non avremmo neppure cominciato. Così, quell’indipendenza tra noi si è subito accodata al desiderio di dipendere gli uni dagli altri”.
Amatissimi lacci. “Quello dell’indipendenza è un discorso che non sta in piedi: tanto, se non dipendi da una cosa, ne dipenderai da un’altra. Io dipendo da Dio. Sono per una dittatura di Dio. Recito il rosario ogni giorno: è la parte più importante e felice della mia giornata”, dice al Foglio Edda (Stefano) Rampoldi. Quando i Csi si sciolgono, restando fratelli, è il 2001: quell’anno vanno all’aria anche i Ritmo Tribale di Edda, milanesi. A Milano, per tutti gli anni 80 e 90, si è prodotto il miglior rock alternativo italiano, quello alla cui intransigenza l’indie ha dato tutela. Edda abbandona i Ritmo appena diventano una band di culto, comincia a drogarsi “dal giorno dopo” e sparisce per tredici anni. Alcuni lo credono morto. Nel 2009, torna con un disco solista,Semper biot. Significa sempre nudo. Daria Bignardi lo invita a L’era glaciale, gli mette accanto Andrea De Carlo, cerca di fargli spiegare un mucchio di cose. Cerca di gentrificarlo – anche se gentrificare ancora non si dice, al massimo si legge sui manuali di urbanistica – e forse un po’ ci riesce. Per Edda è sufficiente raccontare e basta. Come nel suo disco. Fa l’operaio ponteggista e scrive: “Faccio dei ponteggi, non mi piacciono le leggi”. Per il pubblico alternativo è come se non fosse mai andato via, per gli altri è un nuovo artista da amare. Quest’anno è tornato con un disco che si chiama Graziosa Utopia, applaudissimo dalla critica. “Qui a Bibiena – dove si è trasferito dopo aver abbandonato Milano, ‘ormai plastificata’ – della querelle sull’indie non mi arriva niente. Vedo che le etichette indipendenti ormai sono più importanti delle major e ricordo che, quando ero bambino, la musica che passava era Mina, Marcella Bella, Rita Pavone. Motta, TheGiornalisti, Calcutta, e tutti gli altri non scrivono più quella roba perché scrivono sinceramente e a me sembrano tutti dei gran bravi ragazzi”.

 

Degli stessi ragazzi, Manuel Agnelli ha detto, in un’intervista a Linkiesta di qualche mese fa, che “suonano musica leggera italiana camuffata da indie solo perché non è prodotta da una major. Quella roba lì, però, non è indie nei contenuti, non è indie nell’attitudine”. Michele Monina, critico musicale, ha scritto sullo stesso giornale che quando Manuel dipingeva i giovani degli anni 90 non poteva immaginare di stare addirittura preconizzando quelli che sarebbero arrivati dopo di lui, allevati con la sua stessa musica, a “rompergli il giocattolino e trasformare l’indie in una divisa da indossare”. Fino allo scorso anno, Agnelli era sconosciuto al grande pubblico: poi, ha fatto il giudice a X Factor e quindi parlare con lui significa vedersela con uffici stampa che dicono cose come “Manuel è stanco di polemiche”.

 

L’anno scorso, alla Repubblica delle idee, Agnelli ha detto: “Io ho suonato per essere libero nella vita, non nella musica: non me ne frega un cazzo di essere libero nella musica, alla fine lo do per scontato. Ora si è tutto ribaltato: chissenefrega se sei libero nella vita, l’importante è che sei libero nella musica. Libero dal mainstream, libero dal mercato”. L’indie non serve a emancipare dal mercato: serve a ignorarlo. Quando Agnelli parla di “conformismo dell’anticonformismo” coglie un processo innegabile: l’emancipazione che astringe la libertà rendendola protocollare, modello unico. Ma l’age d’or del rock reietto, freak, alternativo che Agnelli ha in mente per ovvie ragioni (essendo tra i protagonisti della sua ultima stagione) è esistita davvero? Guardi AlmostFamous e capisci quale delitto era non drogarsi, vagabondare e scopare forsennatamente se ascoltavi hard rock negli anni 70. Ascolti L’avvelenata di Guccini e capisci che era un delitto persino riuscire a vivere con la tua musica: “Vendere o no non passa tra i miei rischi, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso”. Motta ha detto: “Noi non ci vergogniamo più di scrivere canzoni pop, che alla fine è la cosa più difficile di tutte”.

 

Secondo Babalot, cantautore romano, il pop è “un augurio, come a dire vorrei che piacesse a più persone possibile”. Una definizione “prudente, ma credo, efficace” di pop, al Foglio, la dà Massimo Coppola, che i millennial li ha inseguiti quando avevano vent’anni, in giro per l’Italia, nel centro e nelle periferie, quando le periferie non erano quartieri autentici da riqualificare, ma cessi e basta (il suo documentario a puntate, Non avere vent’anni, è stato trasmesso, nel 2007, su La7). “E’ pop tutto ciò che ha una diffusione trasversale. Si può essere indie come attitudine ma pop come diffusione (Nirvana, per fare un esempio) o pop come attitudine ma indie come diffusione (quella che una volta si chiamava nicchia)”. E millennial, invece, che parola è? “Il modo più produttivo di usare questo termine sta nel definire le modalità di consumo dei contenuti; proprio per questo credo sia più interessante la definizione di nativi digitali: fruiscono di quel che vogliono, quando e dove vogliono. E condividono le loro preferenze, non si sentono superiori o inferiori a chi ha gusti diversi”. Mica poco: una generazione senza snobismi.

 

“La massima espressione dell’attitudine indie un po’ ripiegata su se stessa coincide con la disconnessione tra musica e persone”, dice al Foglio Max Casacci, classe ’63, fondatore di Subsonica, Traffic Festival di Torino e Casasonica, etichetta, neanche a dirlo, indie, che poi ha lasciato. Il suo ultimo lavoro, The City, è un disco su Torino, anzi su “Torino trasformata in un corpo ritmico”: i suoni della città al posto della batteria e il jazz che li raccorda. “La scena indie più significativa, almeno come lascito, era quella anni 90. All’epoca, suonavo con gli Africa Unite: i primi tempi, non cercavamo nessun contratto discografico: i nostri dischi erano completamente autoprodotti, li facevamo solo per la necessità di vendere, quando suonavamo dal vivo, che era la cosa per noi più importante. Essere autonomi attraverso i live significava poter vivere di musica avendo a che fare con meno intermediari: assomigliava molto allo scenario attuale”. Solo che incidere un brano, allora, era più complicato: oggi una connessione wi-fi e un pc sono quasi sufficienti per farlo e più che sufficienti per diffonderlo. Questo, se da una parte aiuta l’emersione, sfasciandone le regole, crea l’imperio di non averne. E infatti: “Ci avete rotto il cazzo, etichette indipendenti. Con 400 euro ti registro il disco in casa, suona bene, lo metti su Vimeo, fai girare la voce, tra un anno a Coachella e tra due anni a fare il benzinaio”, canta Lo Stato Sociale nel 2012: grande successo (quello della “rottura di cazzo” è un tema caro all’indie degli anni Zero, puntellati come sono stati di Vaffa Day). Pochi anni dopo, il gruppo è ospite di Fabio Fazio, con un pezzo sconsolato ma ballabile, che parla di un tizio che ama una tizia ma va di fretta per colpa del precariato e quindi le consiglia: “Amami come ameresti te se fossi me e viceversa quindi male e senza capire niente, una vita al contrario ed i sogni a metà, abbiamo finito la felicità”. La sintesi perfetta di un decennio di inserti socio-culturali.

 

Da Fazio non arrivano I Cani di Niccolò Contessa, che canta “io non voglio più guardare dentro di me, non c’è niente di niente”, dentro un disco bello, zeppo di buchi neri e colpe, ma nessun nemico.

 

 

Al suo esordio, nel 2010, Contessa mette online “i pariolini di 18 anni, sono gli ultimi veri romantici, odiano tutte le guardie infami, animati da un generico quanto autentico fascismo, testimoniato ad esempio dagli adesivi sui caschi”. Bum. Cioè, virale. La 42 Records gli offre un contratto, nel 2011 esce il disco: sulla copertina c’è una ragazza legata, su una gamba ha scritto “pronta a tutto”. Dentro, c’è Velleità e dentro Velleità c’è tutta la gioventù alternativa, Contessa compreso: “Anoressiche alla moda, anoressiche fuori moda, bulimiche che si occupano di moda, i gruppi hipster, indie, hardcore, punk, electro-pop, i Cani”.

 

Dice Contessa: io sono tutto quello che odio e non posso farne a meno. Per questo, sugli altri, non ci scatarra. Per questo, forse, da Fazio ci finisce Lo Stato Sociale, che nel solco di Contessa si muove, ma sempre senza j’accuse, così con il pubblico di Fazio può condividere i nemici di sempre: la società, il tempo, la politica, il paese. I Cani, invece, dicono: siamo noi il nemico. E ci mettono sei anni per scrivere la ragione: “Dentro di me non c’è niente di niente”. Contessa, oggi, è quasi sparito, scrive canzoni per altri, eppure sembrava votato a Sanremo, a Rtl, a fare l’influencer, quest’anno che l’indie è finito pure nelle domande di Repubblica al vincitore del Premio Strega (“Cognetti, lei ha ringraziato il suo vecchio editore: è stato un omaggio alle sue origini indi?”, un refuso grottesco ma che, forse, dimostra che l’indie è ancora un alieno per il mainstream). E’ andata meglio a Brunori Sas: “Con l’occidente chiuso in una banca, io me ne vado in settimana bianca”, con quell’io che è una freccia scoccata fuori di sé. Anche lui, come Agnelli, parla tramite ufficio stampa, che ci sbologna con un “Brunori è stanco di parlare di indie, ha già rilasciato un’intervista alla Repubblica”. Quest’anno, dopo piazza San Giovanni, è tornato a Roma all’ippodromo delle Capannelle, nello stesso cartellone con Marilyn Manson: ha aperto il concerto dichiarando: “Sono il Manson italiano, dentro Inps e fuori rock’n’roll”. Parodiarsi è fondamentale per risultare autentici. L’autenticità è un credo con molti fedeli: funziona. E quando una cosa funziona, si cerca di indovinarne la ricetta. “Parte della scena indie di oggi è nata quando fare musica alternativa era il solo modo per averne una: magari faceva schifo, magari non sapevi suonare, ma comunque facevi qualcosa di diverso da quello che ti veniva propinato”, dice al Foglio Federico Dragogna, 35 anni, produttore, chitarrista e paroliere dei Ministri (esordio nel 2003 con I soldi sono finiti). E poi, i ventenni sono diventati trentenni. “Funzionando un po’ di più, professionalizzandoci un po’ tutti, abbiamo cominciato a pensare di poter fare, dentro l’indie, un sacco di cose, compreso il pop: oggi le band indie fanno il pop meglio di molte band pop”. E’ un crimine? “No, ma è importante non confondere pop con universale. I grandi artisti universali (Marley, Queen, Bowie) hanno grandi scritture, ma non sono pop. Il pop inteso come scrittura che funziona e basta sta creando non solo una pornografia del pop, ma pure una sua manualistica. I ventenni arrivano dalle major che sono già radiofonici, fabbricati per il successo, più realisti del re. Il rischio è che le voci alternative si perdano, si inibiscano e sacrifichino il desiderio di esprimersi a quello di coinvolgere un pubblico vasto. Se sparissero le canzoni noise da sei minuti, il problema non sarebbe tanto il dato in sé, quanto il fatto che verrebbe a mancare quell’esperienza e non ci sarebbe più quella possibilità particolare. Se alla musica, a un certo punto, togliessimo quella non pensata per passare in radio, l’espressione si bloccherebbe e i Bowie non sarebbero più possibili”.

   

Eppure, dieci anni fa, quando la voglia di fare il noise era intatta, magari saldata a una posa, ma comunque vibrante, la musica sembrava spacciata. “A metà degli anni Zero c’è stato un picco negativo nell’interesse generale verso la musica – dice Casacci – che sembrò uscire dai consumi culturali delle persone. Chiusero molti locali, i dischi si vendevano sempre meno. Poi, però, qualcosa si rimise in moto: è stata questa generazione a riaccendere l’interesse verso la musica, a dimostrare che non è dai talent che vengono fuori gli artisti, a riportare il pubblico ai concerti, a rendersi conto che, per uscire dai sottoscala, non ci sono dogmi da seguire”. A metà degli anni Zero, racconta Dragogna, “c’erano pochi soldi e poche scommesse possibili, ma gli artisti erano in giro. Con i Ministri abbiamo suonato ovunque, abbiamo visto il pubblico diventare una comunità coesa, etichette e promoter condividerne la fame e il desiderio di essere insieme. Sono stati anni duri ma liberi: l’uso che facciamo oggi della parola indie è nato lì”. La necessità aguzza un sacco di cose. “Questa è una generazione intraprendente – dice Casacci – cresciuta con l’idea di doversela cavare da sé, con pochissimi mezzi a disposizione e questo anziché limitarne lo sguardo, glielo ha ampliato. Oggi, i ragazzi italiani guardano all’Europa come prospettiva di vita e lavoro, la utilizzano come progetto ed è così che la fanno vivere. Ci sono musicisti giovanissimi che sono in grado di confrontarsi con il mercato anglosassone e internazionale con disinvoltura e naturalezza”. Esempi? “I Niagara”. Un duo che suona elettronica, si autoproduce e registra a Berlino. Hyperborea, l’ultimo disco, racconta di un pianeta completamente ricoperto d’acqua. A Rolling Stones, uno dei Niagara ha detto: “Negli anni Duemila o facevi indie o ti cagavano il cazzo. Erano gli stessi che oggi invece te la menano con l’elettronica e schifano l’indie”. Manuel Agnelli sembra non aver fatto i conti con il fatto che a qualcuno l’indie toglieva l’aria già quando era freak, duro e puro e che i millennial potrebbero aver aperto le finestre.
Giulio Ragno Favero, produttore e bassista del Teatro degli Orrori, band di culto per l’underground anni Duemila, dice al Foglio: “L’indie è un’attitudine fiera nelle sue radici di indipendenza da certe regole di mercato legate all’industria discografica, ma nel 2017 è un approccio vecchio, che ancora paga il prezzo della propria chiusura in una nicchia cannibale, che crede poco nella possibilità della musica. Il periodo in cui mi sono sentito parte di una ‘scena indipendente’ è stato limitante. Un artista vero, completo, sarà sempre se stesso in qualunque situazione: non è nemmeno questione di coerenza, ma di identità forte, piena”. Marco Guazzone (classe ’88), che nel 2012 partecipò a Sanremo senza i suoi Stag (su consiglio dell’etichetta: sapete com’è, a Sanremo le band non tirano), con Guasto, ci racconta che, dopo il festival, ricevette una proposta dalla Emi e un’altra dalla Warner: volevano che sparisse la band e che lui cantasse in italiano, le rifiutò entrambe. “Non è la macchina che hai intorno a fare la differenza: indipendente non è il genere, ma quello che sei disposto a fare per realizzare la tua scelta musicale”. Favero: “Oggi, i Radiohead in due concerti computano 110 mila paganti. Sarebbe un ottimo segno, se non fosse per il semplice fatto che a nessun gruppo italiano viene data la possibilità di esprimersi con un linguaggio come il loro”. Nessun rimprovero per i musicisti più giovani? “Non ne ho alcun diritto”. Coppola: “Non li seguo”. Per Umberto Maria Giardini, fino al 2010 Moltheni, i giovani sono la volgarità, l’indie non è né vivo né morto “soprattutto in Italia, dove quasi nulla ha senso” e il presente è rap. “Noi stiamo facendo musica anacronistica: i ragazzini vogliono il rap”, dice chissà chi nel documentario Non suonate i miei dischi e sputatemi addosso di Marco Riccardi, che racconta la scena indie romana in modo così indie che non ci sono nemmeno i nomi degli artisti in sovrimpressione e uno di loro si fa intervistare con la telecamera puntata dove lui non è, mentre racconta di aver distrutto tutti gli specchi. “Abbiamo riportato la musica tra le persone e lo abbiamo fatto senza una lira, senza tv, senza giornali o coi giornali che ci sbagliavano il cognome, ma dobbiamo ancora tirar fuori il nostro peso specifico: abbiamo dieci anni prima di diventare noi i nuovi vecchi”, dice Dragogna. Una settimana prima del Mi Ami di quest’anno, al Monk di Roma, locale di riferimento dell’ala indie romana, durante una rassegna scalcinata, sono saliti sul palco dei ragazzi di Lanciano (Abruzzo), i Voina. Fuori, diluviava. Dentro, il locale era pieno a metà. “La pioggia fa una selezione perfetta tra chi ha coraggio e chi no”, ha detto il cantante. Io ero sotto il palco, col taccuino in mano. Ho pensato che se siamo riusciti a portare sul palco un ventenne capace di dire una cosa così, non siamo un paese per giovani, ma pieno di giovani commoventi, che hanno tutti ragione di bastonare e d’esser bastonati.

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