Il nuovo punk
Da genere di serie B a simbolo di una generazione. La musica elettronica e il caso Avicii
Una ventina d’anni fa entrai al Virgin Megastore di Tottenham per cercare un cd di musica elettronica caldeggiato dal mio capo di allora, un ventitreenne che preparava la tuna salad più buona di East London e arrotondava facendo il dj nei fine settimana.
(Track 1: Stardust, It sounds better with you).
Entrando nel reparto Electronic Music, mi trovai davanti uno stanzino protetto da un drappo nero, come le esposizioni di cassette porno nei videonoleggi. Dentro c’erano un paio di cuffie collegate a un lettore inchiodato al muro e, nonostante l’elitarismo della location facesse immaginare un’ampia scelta di opzioni, appena tre file di compact disc e una di vinili. Forse cinquanta titoli in tutto. Nient’altro. Un decimo dell’offerta rock, pop o r&b. Meno di un terzo del settore jazz. Soprattutto non c’era nulla che un esperto di musica elettronica, o anche solo il mio capo, avrebbe definito tale: Bob Sinclair, Chemichal Brothers, techno campionata male, una spruzzata di jungle, compilation dai nomi osceni come Ibiza Beach Party e Buddha Bar Volume 4.
(Track 2: Chemical Brothers, Electronic battle weapon).
Mentre Londra era distratta dal britpop, ad Amsterdam e Berlino l’elettronica aveva già iniziato a invadere gli scaffali dei negozi
Mentre Londra nicchiava distratta dal britpop, nelle altre due capitali europee della musica dance, Amsterdam e Berlino, l’elettronica aveva già iniziato a invadere gli scaffali dei negozi e le scalette dei club, ma il guazzabuglio stilistico era lo stesso. E se attorno a lei stentava a decollare una scena musicale vera e propria era anche perché, oltre allo snobismo di molti addetti ai lavori (“Non vendo musica fatta senza attaccarsi a un amplificatore”, fa dire Nick Hornby al commesso di Championship Vinyl protagonista di “Alta fedeltà”), doveva fare i conti con una certa incapacità ad autodefinirsi e autopromuoversi.
Sono passati lustri, il mercato discografico ha cambiato pelle dopo aver rischiato la dissoluzione, le etichette specializzate, dalle cinque che erano nel 1987 – quando sul mercato comparvero i primi sintetizzatori e sequencer domestici – sono diventate trecentocinquanta. Eppure la musica elettronica rimane uno dei generi meno compresi che esistano da ogni punto di vista: creativo, umano, di percezione del business. Lo dimostra il dibattito un po’ surreale delle ultime settimane intorno al cadavere di Avicii, il dj e produttore svedese che all’anagrafe faceva Tim Bergling, finito sul tetto del mondo a 22 anni, ritiratosi dalle esibizioni live a 26 per concentrarsi su ciò che lo faceva sentire più al sicuro, la produzione in studio, infine morto suicida a 28, schiacciato dalla pressione e dai suoi demoni impastati d’alcol, junk food, mdma e antidolorifici.
(Track 3: Avicii, Levels)
Soltanto nel 1987 le etichette specializzate in musica elettronica erano cinque. Oggi sono circa trecentocinquanta
I coccodrilli della prima ora, ma anche le analisi più strutturate della seconda, rimangono segnati dalla confusione sul suo percorso e dai luoghi comuni: fragilità versus luci della ribalta, la retorica dello scantinato, il songwriter di Madonna (giuro, l’ho letto), le insidie del successo, i testi emo, le pasticche e ovviamente la musica-che-non-è-vera-musica-perché-col-pc-è-più-facile-per-un-nerd-diventare-una-rockstar. Gli unici paralleli calzanti, che pur includendo in tutto o in parte questi elementi hanno provato anche a definire i confini del genere, e dunque anche l’eredità artistica di Bergling che li ha significativamente forzati, li ha tracciati la columnist musicale dell’Observer Katie Bain: la musica elettronica, ha scritto Bain, è il nuovo punk. E non solo per la sincronia fra talento precoce e male di vivere che rende Avicii un Johnny Thunders o un Sid Vicious fuori tempo massimo, ma per almeno due motivi strutturali. Ai quali qui si prova ad aggiungerne un altro.
Primo: la musica elettronica funziona perché, proprio come il punk, è fatta di pezzi brevi, mai complicati per quanto riguarda la prima linea di suono e dai ritornelli generalmente orecchiabili. Caratteristiche alle quali se ne aggiungerebbe un’altra, evidenziata dall’immancabile statistica pronta a puntellare le teorie di noi tuttologi: secondo l’università dell’Ontario, che nel 2014 ha preso in esame un campione di oltre duecento brani electro, la successione di note, battiti accelerati e bassi pesanti tipica del genere è particolarmente adatta a stimolare microscariche di endorfine e serotonina. Una Nutella in decibel, praticamente.
(Track 4: Duck Sauce, Barbra Streisand).
Secondo: democraticità, nicchia, disintermediazione, orgoglio nerd. Se scorrete le biografie di molti degli artisti più famosi, rimarrete impressionati da quanti di loro abbiano iniziato studiando pianoforte, al conservatorio o altrove. Questo non ha nulla a che fare con il punk, ma ha molto in comune con la solitudine compositiva che conduce dritti alla cameretta o al garage e da lì, per il canonico uno su mille che ce la fa, al successo privo dei compromessi di un tempo: interviste, dipendenza da passaggi obbligati in radio e tv. Questo non è per dire che la musica elettronica non abbia le sue stelle: Amon Tobin, Squarepusher, Prefuse 73, LAStyle, Daft Punk, Aphex Twin e molti altri sono stati capaci di farsi un nome in un mercato apparentemente saturo nonostante (o forse proprio grazie a) un’assenza quasi assoluta di sovrastrutture. Perché la musica elettronica, e in particolare la Edm (electronic dance music) di Avicii e altri che potremmo catalogare come più “commerciale”, si può creare, registrare, mixare e masterizzare completamente dallo studio di casa tua, saltando anche i passaggi distributivi grazie a YouTube, iTunes, Soundcloud e Spotify, trasformando l’autore in una sorta di mago di Oz dalle mille identità: “Siamo degli avatar”, spiega lo stesso dj svedese in “True stories”, il documentario sulla sua vita trasmesso da Netflix, “ma questo ha un impatto forte anche sul nostro essere persone, e sull’approccio dei fan alla nostra musica”.
(Track 5: Avicii featuring Rita Ora, Lonely together).
Proprio come nel punk e in parte nel grunge, dove l’identificazione e la contiguità del pubblico con le band sono più strette, comprese le arie da controcultura e la condivisione di un certo pessimismo rispetto al presente.
Terza e ultima motivazione, che in realtà funge da contrappasso e parziale contraddizione della precedente: pochi generi, forse nessuno, hanno saputo dare nuova linfa all’industria discografica come l’elettronica. Ideale per superare le difficoltà odierne di far corrispondere un suono a una faccia. Adatta, ben più di quanto i manager sospettassero inizialmente, alla contaminazione di generi e massificazione di sé stessa da cui far nascere nuove nicchie. Vedere alla voce David Guetta
(Track 6: David Guetta featuring Sia, Titanium)
o al successo, anche italiano, della trap, ibrido tra rap ed elettronica.
(Track 7: Capo Plaza, Non cambierò mai)
Infine, l’elettronica sembra perfetta per spingere l’acceleratore su due delle poche voci di business ancora capaci di regalare redditività: il ritorno dei vinili e i mega eventi live. Ingrediente, quest’ultimo, che porta con sé anche il seme della post-live depression: secondo la ong inglese Help the musicians ne soffrono il 69 per cento dei performer. Hanno ammesso di esserci caduti, oltre allo stesso Avicii, quasi tutti i nomi di primo piano della musica elettronica, come Moby, Erick Morillo, Ben Pearce, Deadmau5.
(Track 8: Sébastien Tellier, L’amour et la violence)
Mentre le band di solito vanno in tour in occasione di un nuovo album, i dj viaggiano senza sosta. Nell’anno precedente al suo ritiro dalle scene, Avicii aveva suonato 320 volte, quasi una al giorno.
Ma la sua morte, per tutti i motivi che abbiamo elencato, non fermerà il carrozzone. La musica elettronica sopravviverà al suo aede come il punk è sopravvissuto alla fine dei Pistols e il grunge al suicidio di Kurt Cobain. Forse anche meglio.
Antifascismo per definizione