L'ultima partita

Corrado Beldì

Al teatro alla Scala di Milano fino al 25 novembre “Fin de partie” di György Kurtág diretta da Markus Stenz con la regia di Pierre Audi

Il cappotto, le scarpe, la bicicletta, il taglio dei capelli, ogni cosa nella vita si può cambiare, se voti bene anche il ministro dello Sviluppo Economico, in fin dei conti dipende tutto da noi, con una sola rilevante eccezione, il nostro vicino di casa. Quello te lo ritrovi ed è per sempre. Il mio si chiama Sandro Susani, è in pensione da una vita e ascolta la musica a palla e protestare è del tutto inutile perché “questo è il volume giusto”. Ogni sera va a teatro, è un loggionista indefesso e quando torna mette Kurtág fino a notte fonda, mi assicura che è la sua camomilla, è stato lui a farmi conoscere Játékok e Kafka-Fragmente, in vent’anni li ho imparati a memoria e per forza, dalla mia camera si sente ogni nota. Di solito finisce verso le quattro con Stele, “che è dedicata al mio Claudio!” lo chiama ancora così perché lui e Abbado erano compagni di scuola e da quando non c’è più “la mia vita non è più la stessa” e si è messo a raccontare le storie più incredibili, come quando mi ha detto che György Kurtág stava scrivendo la sua prima opera “ma la notizia è ancora riservata!” e che aveva scelto un testo di Samuel Beckett.

 

 

 

L’antecedente è antico, Kurtág era al Théâtre des Champs-Élysées una sera del 1957 per la prima francese di “Fin de partie” e Beckett in persona era in sala, ma alla fine lui non lo aveva avvicinato. Forse era solo lo stupore per il teatro di Auguste Perret o una certa timidezza o era tutta colpa di quel testo così difficile, ci aveva capito poco ma gli era scattato qualcosa e infatti ha raccontato che da quel giorno “Beckett è diventato la mia Bibbia”. Doveva pur credere in qualcosa dopo i fatti di Ungheria, il sogno spezzato e uno straniamento persistente, come sopravvivere a un conflitto atomico, Kurtág era venuto a Parigi con l’inseparabile Márta per ritrovare un senso al fare musica e sappiamo tutti che l’ha trovato, altrimenti ora non starei camminando col Susani proprio verso la Scala dove stasera ascolteremo l’opera più attesa del decennio, il suo testamento musicale.

 

 

 

La gestazione è stata infinita, una antica promessa a Pierre Audi, che corona il suo sogno con la regia, il testo consumato per mezzo secolo e l’insistenza di Alexander Pereira, un uomo indomabile, è di certo al settimo cielo per questa prima mondiale, perché Kurtág lo ha fatto penare, nessun contratto né compenso stabilito né data di consegna, doveva debuttare a Zurigo, poi a Salisburgo e infine è nostro il privilegio di averla a Milano, dopo le prove a Budapest con l’orchestra e un lungo lavoro coi cantanti, perché in Beckett ogni parola è un mondo di significati e intorno a ciascuna il compositore ha costruito il suo universo di suoni. Una ricerca minuziosa che merita un aperitivo non banale, siamo in anticipo e Susani è d’accordo e poi il Café Trussardi è proprio di fronte al teatro. Per una volta rinuncio al solito americano, Alessandro ci prepara una versione con Unicum, il vero amaro ungherese. Una scelta di campo, le olive sono gustose e le arachidi piccanti al punto giusto e Susani è soddisfatto anche se ha l’aria di non reggere l’alcol, al primo sorso mi fissa negli occhi e mi fulmina. “Dopo tutto, sono tuo vicino. È vero che se non fossi stato io sarebbe stato un altro”. Non saprei dire se è il drink o una citazione beckettiana. Nel dubbio trascrivo tutto sul tovagliolo con la mia solita bic blu, un buon esempio del genio magiaro, si chiamava László Bíró, ha inventato lui la penna a sfera, la più affidabile mai prodotta, quella che non ti tradisce mai soprattutto se hai tanto da raccontare.

 

 

 

Stasera (15 novembre ndr) ci sono giornalisti da tutto il mondo, hanno fatto a gara per non mancare. Da giorni se ne parla come “l’altra prima”, ma senza l’eleganza di Sant’Ambrogio ed è una vera fortuna, ho ancora indosso le scarpe da cantiere, quelle col puntale in acciaio che metto in fabbrica. Quando si alza il sipario mi dico che sono perfette, la scenografia è asciutta e catramosa, esterno giorno o notte non si sa, una casa, due finestre, una porta e attorno c’è un doppio cielo scuro, un confine invalicabile come in quei quadri di Francis Bacon, è tutto bianco o nero perché “Fin de partie” è la metafora di una grande sfida a scacchi in cui l’esito è segnato da tempo ma i personaggi, contro ogni logica, continuano a giocare. I sopravvissuti sono quattro, Clov è un servo zoppo, cammina in diagonale come un vero alfiere e al contrario del suo padrone non si può sedere. Hamm è cieco e paraplegico e dalla sedia a rotelle fissa un paesaggio che può solo ascoltare. Lo tormentano i discorsi dei genitori Nagg e Nell, da sempre inseparabili, erano in tandem nelle Ardenne quando hanno perso le gambe in un incidente e ora vivono affiancati in due bidoni. Non possono lasciarsi ma nemmeno baciarsi e chissà se questo è un tormento o una fortuna. Può muoversi soltanto Clov e non ha un attimo di pace, il resto è immobile ma solo in apparenza, le ombre proiettate amplificano i movimenti e la narrazione procede a velocità ridotta mentre la musica avvolge ogni sillaba, prolunga, scava, seziona, c’è una ricchezza di suoni che annoiarsi è impossibile e chissà quanto gode Susani lassù in loggione ad ascoltare tutta questa meraviglia, anche se la storia non è certo da buttarsi a terra dal ridere. Hamm agita uno straccio insanguinato, forse gli occhi gli sono stati cavati.

 

 

 

La signora davanti a me fa uno sguardo inorridito. Si gira. “Secondo lei sarà tutta così?”. Le rispondo che può solo peggiorare e soprattutto per lei, non può fuggire da nessun lato, è imprigionata come Nagg e Nell i quali almeno si scambiano biscotti e ricordano il passato, hanno trovato la loro serenità, i coperchi dei bidoni sono come aureole e somigliano a due santi dipinti su fondo oro, solo che il fondale è plumbeo e desolante. La signora è davvero impaziente, la distraggo con la cover del mio iPhone, è un’immagine di Top Cat, era il cartone più fico del mondo, quel gatto era un vero sbruffone, pure lui dormiva in un bidone, con il pigiama a pois, la cuffia e i tappi per le orecchie, la sigla era allegra e trascinante, mentre a Kurtág lo swing non interessa e infatti a ogni cambio scena qualcuno se la fila. Non sanno cosa si stanno perdendo.

 

 

Non è certo la serata ideale per l’abbonato tradizionalista, la signora si sente come Hamm che è inchiodato in carrozzina e desidera un calmante per sperare di mettersi a sognare. “Se dormissi, forse farei l’amore. Andrei per boschi. Mi metterei a correre. Mi inseguirebbero ed io fuggirei”. C’è una grande varietà di suoni e spesso gli strumenti suonano soli, in due o in tre al massimo, senza mai un attimo di stanca, la partita in effetti è di due ore e va vissuta trattenendo il fiato. L’intervallo non è previsto e certo dispiace perdersi la pausa nel ridotto Toscanini che è un gran momento d’incontro e poi stasera in teatro c’è Viktor Orbán, ero già pronto a parlargli del mio cocktail ungherese o di qualunque altra cosa pur di attaccar bottone, come la storiella del sarto che Negg racconta tutti i giorni a Nell. Gli ordinano un paio di pantaloni in vista delle feste di fine anno ma il tempo passa e ogni volta c’è qualcosa che non va, il fondo, il cavallo, la bottoniera e infine le asole, ormai è arrivata la Pasqua e il cliente va su tutte le furie “in sei giorni Dio ha fatto il mondo e in tre mesi lei non è stato capace di fare un paio di pantaloni” e allora il sarto “ma Milord! Guardi il mondo… e guardi i miei pantaloni!”.

 

Chissà perché sono l’unico a ridere in platea, guardo la signora che invece dorme di brutto e si perde il gran monologo di Hamm dove c’è tutto l’alfabeto di Kurtág, un condensato di storia della musica, dovrebbero spedirlo nello spazio per raccontare ai marziani le vette del pensiero umano, perché in “Fin de partie” c’è un secolo da chiudere e la vita stessa di un compositore che lo ha attraversato negli anni più duri, perché i cingoli dei carri armati sovietici, lui li ha sentiti per davvero. Il suono del cymbalom è un fiore tra le macerie e chissà se Orbán si sta emozionando come noi, se gli è venuta in mente la sua infanzia tra i villaggi del Fejér e un pomeriggio d’inverno a cercare riparo in un vecchio fienile, mentre fuori “c’era un vento sferzante, l’anemometro segnava cento. Sradicava i pini morti e se li portava via…”, ci sarà pure qualcosa di colto che gli toglie il respiro, come a Matteo Salvini un bel piatto di rustin negàa o una canzone di Max Pezzali o un gol del Milan al novantesimo.

 

Anche qui siamo in zona Cesarini, è una partita anomala che potrebbe non finire mai, sempre a un passo dall’ultima mossa, nessuno vuole prevalere giacché ciascuno dipende dall’altro. Non a caso l’orchestra non suona mai tutta insieme, è un equilibrio instabile in cui alcuni strumenti si dileguano e ti chiedi se prima della fine torneranno a suonare. Hamm ha le chiavi della dispensa ma Clov è l’unico che può arrivarci, mentre Negg e Nell sognano dolcetti al miele, memoria di un viaggio in Turchia e vivono di ricordi, una gita in barca sul lago di Como, “era profondo e si vedeva il fondo, così bianco, così limpido”. Un’immagine che ritorna appena prima della morte di Nell che sprofonda all’improvviso nel bidone. Non c’è niente da fare. Hamm non se ne cura e continua ad abusare del suo fischietto per impartire gli ordini al povero Clov, il quale medita intanto di fuggire.

 

Il suo discorso è una serie di paradossi, “bisogna che tu riesca a soffrire meglio di così, se vuoi che si stanchino di punirti… e che sia presente meglio di così, se vuoi che ti lascino partire”. La sua è una fuga impossibile e infatti resta immobile dietro al muro a fissare il suo padrone, non può mica abbandonarlo a sé stesso, anche se Hamm nel frattempo ha ritrovato il suo amatissimo cane di peluche, ha le rotelle come lui e chiaramente non scodinzola ma a prima vista sembra tanto affettuoso. Mi risulta familiare, non dovrei dirlo ma mia sorella il suo Dash se l’è fatto imbalsamare e ogni volta che vado a trovarla mi viene da salutarlo, è come vivo sulla cassapanca e così carino e ogni tanto lo pettina, anche se ormai non ha più modo di arruffarsi il pelo. Pure Hamm lo vorrebbe coccolare e cerca di avvicinarlo con un rampino e fa perno per spostare la carrozzina. È questa l’ultima mossa e come accade nei testi di Beckett il tentativo è del tutto inutile, come per Vladimir o per Estragon o per la sabbiosa Winnie di “Giorni felici”, anche lui resta esattamente dov’era e così la casa, il cane e tutto il resto. Si ritorna alla scena iniziale, con lo straccio insanguinato sulla testa di Hamm, “vecchio straccio! tu resterai con me” e l’orchestra che suona tutta insieme, è un finale strabiliante, un tappeto di viole che sale dal fondo della buca, cui si aggiungono cymbalom, tamburo, celesta, vibrafono e un piatto sospeso e infine la melodia zuccherina di un’arpa che sale e scende due volte, come dal dorso di una nuvola, prima di sparire per sempre nel buio.

Una pioggia di applausi si abbatte sul teatro. La signora si sveglia di colpo, “mi spiega il senso di questa cosa?” come se io fossi in grado di rispondere e meno male che Adorno ha scritto “Tentativo di capire Finale di Partita”, lo cerco al volo su Amazon e me la cavo mandandole un WhatsApp, mentre arrivano sul palco le ovazioni per Leonardo Cortellazzi e Hilary Summers, finalmente fuori dai bidoni e con gli abiti sdruciti fino ai piedi, ce ne siamo innamorati e c’è un motivo, Negg e Nell sono il ritratto di György e Márta Kurtág. Ecco poi Leigh Melrose, un fantastico e infaticabile Clov e un magistrale Frode Olsen liberato infine dalla carrozzina e Pierre Audi che non sta nella pelle e infine Markus Stenz con la partitura in ostensione. Arriva il mio amico Susani, è sceso in platea e ovviamente è commosso e mi abbraccia perché “questo è il vero addio al mio secolo” che di breve non ha nulla se non il tempo. Anche il nostro corre rapido ed è meglio se ci diamo una mossa, c’è un brindisi dietro al palco per le maestranze e mi godo un Pereira incontenibile, fa le giravolte davanti a tutti e invoca ad alta voce György Kurtág e tutti quelli che hanno contribuito all’impresa, la sua euforia è giustificata, col microfono in mano sembra un presentatore degli anni Ottanta. Si scatena appena arriva la Summers che in effetti merita un altro applauso, ha un abito a forma di bidone disegnato da Carol Alayne, stilista con lo studio in Savile Row, è la strada dei migliori sarti inglesi, quelli che fanno pantaloni perfetti e che arrivano in tempo per le feste e allora sono euforico anch’io perché la tragica ironia di Samuel Beckett, alla fine dell’ultima partita, è riuscita a colpire ancora.

Di più su questi argomenti: