una foto di scena dello spettacolo diretto da Bellocchio (foto di Yasuko Kageyama - Opera di Roma 2016-17)

Morire per un ideale

Mario Leone

Il misterioso lieto fine dell’“Andrea Chénier”, opera sull’amore e sul terrore della Rivoluzione francese. Da oggi in scena a Roma diretto da Marco Bellocchio

Le melodie intonate da Turiddu nella Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e l’arcinoto “Ridi pagliaccio” nei Pagliacci di Ruggiero Leoncavallo incarnano a pieno lo spirito del Verismo musicale. Riportare la cronaca come assoluta protagonista del melodramma, senza mistificazioni poetiche e toni elegiaci. Esprimere la realtà nella sua crudezza: questo è il compito dell’arte. Lo chiarisce bene Tonio in costume da Taddeo nel prologo dei Pagliacci, vero e proprio manifesto estetico di questo periodo: “L’autore ha cercato invece pingervi uno squarcio di vita. Egli ha per massima sol che l’artista è un uom e che per gli uomini scrivere ei deve. Ed al vero ispiravasi.[…] Dunque, vedrete amar sì come s’amano gli esseri umani; vedrete de l’odio i tristi frutti. Del dolor gli spasimi, urli di rabbia, udrete, e risa ciniche!”.

 

Se da un lato l’opera verista con Mascagni e Leoncavallo raggiunge quel realismo di cronaca senza ambizioni di alta poesia, i compositori Francesco Cilea, Franco Alfano e soprattutto Umberto Giordano avvertono il rischio che la musica si riduca a mero commento realistico di una storia. Ha inizio così la ricerca di temi di grande notorietà storica che raccontino fatti veri, nei quali però emerga una forte componente di passioni e sentimenti legati alla natura dell’uomo. Si pensi, di contro, al “Tristano e Isotta” di Richard Wagner andato in scena nel 1859. A creare il mito del melodramma wagneriano non è la trama (l’amore impossibile tra Tristano e Isotta) né i personaggi, che sono “lineari”, quanto la musica e la conduzione teatrale. Nel verismo musicale invece i personaggi non sono ideali ma concreti e per questo la musica deve dare un contributo espressivo più che reale.

 

Nell’“Andrea Chénier” di Umberto Giordano non è tutto così lineare. Le vicende del poeta Andrea Chénier, del servo Carlo Gérard (innamorato di Maddalena e rivale di Andrea) e della contessina Maddalena si intrecciano ai fatti della Rivoluzione Francese e al periodo del terrore. Una storia d’amore a tutto campo quella tra il poeta e la contessa che li condurrà a prendere coscienza di come anche gli ideali più giusti possano decadere nella violenza e nell’ideologia. Giordano mette in scena un dramma non solo verista ma vero cioè profondamente legato a quello che è l’uomo di tutti i tempi: al desiderio di giustizia e verità non si può rispondere solo con un’idea. Allora Giordano, con il librettista Illica, inserisce nelle vicende storiche un qualcosa che sembra ideale: l’amore tra Andrea e Maddalena vive e si accresce nel silenzio, nell’angoscia e nel distacco fisico, anche carnale che sembra appunto non essere reale.

 

Il dialogo tra realtà fattuale e realtà ideale fu ben compresa dal pubblico del Teatro alla Scala nel 1896. Il consenso alla prima fu unanime anche se nel corso degli anni l’opera conosce alti e bassi per via di un isterico e superficiale pregiudizio di studiosi e addetti ai lavori che inseriscono lo Chénier tra le opere il cui tono musicale è definito sbracato. L’opera invece ha una sua architettura ben precisa e Giordano è un sapiente compositore. Pur scritta in un periodo di grandi mutazioni e sperimentazioni musicali, risulta essere perfettamente tonale e non atonale come alcuni vorrebbero far credere per l’assenza di alterazioni in chiave. Nella densa partitura ritroviamo, come in altre lavori di questo periodo (l’Adriana Lecouvreur di Cilea ad esempio), riferimenti a forme del passato, quasi a voler dare un tono di “classicità” a uno stile più moderno. Per esempio, nel primo quadro dello Chénier ci sono delle specie di Madrigali (come ci saranno nel terzo atto dell’Adriana Lecouvreur) che fanno riferimento alle favole pastorali tipiche della musica barocca. L’orchestrazione, tardo-romantica, presenta grandi sonorità e inarrestabile liricità. E’ un’orchestra che non accompagna ma è vera protagonista. Il compositore foggiano non ha timore di mostrare i sentimenti. Quella dell’“Andrea Chénier” è una partitura dove si stagliano grosse masse sonore che accompagnano il trionfalismo della gaudente nobiltà francese, ignara del suo inesorabile declino, l’epopea della Rivoluzione francese e il drammatico finale della morte dei due amanti.

 

Dal punto di vista vocale i tre personaggi protagonisti, Chénier, Maddalena e Gérard, hanno una netta preminenza sulle altre voci. Le parti vocali per estensione, acuti e virtuosismo non sono da tutti affrontabili. Solo i più grandi cantanti si sono cimentati: Bergonzi, Corelli, Callas. Quest’ultima interpretazione poi è diventata celeberrima grazie al film Philadelphia (con Tom Hanks e Denzel Washington) dove l’aria “La mamma morta” accompagna uno dei momenti più struggenti della pellicola.

 

E così, in uno spartito che comunque presenta qualche pesantezza di troppo, si arriva al finale dove Maddalena decide di morire con l’amato Andrea. Non è la prima volta che nel melodramma l’eroina muore con l’amato. Si pensi all’Aida di Verdi dove i due amanti moriranno in modo sommesso, elegiaco, si spegneranno in maniera lenta, quasi discreta. Nell’opera di Giordano, per la prima volta nel melodramma, i due amanti se ne andranno tra squilli di trombe, cantando all’unisono “Viva la morte insiem”, nell’enfasi per una drammatica fine che diventa un misterioso lieto fine.

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