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fast fashion

La storia paradossale di Shein, il brand di moda che il mondo ama odiare

Fabiana Giacomotti

Il colosso cinese sotto accusa per condizioni di lavoro e pratiche commerciali aggressive. La percezione del marchio cambia e il brand si trova ad affrontare critiche sociali e accuse di abuso di posizione dominante

Lo scorso inverno, fra le madri delle ragazzine dei Parioli e di Roma nord abituate a sfoggiare un vestito scelleratamente nuovo ogni sabato (quelle del centro hanno in genere abiti di famiglia che indossano con orgoglio o vestono comunque vintage) era stata concordata una narrazione dalla quale Shein, il colosso cinese dell’ultra-fast fashion che cerca di quotarsi da due anni a Wall Street incontrando sempre nuovi ostacoli per via del modello di business e soprattutto delle condizioni di lavoro a cui sottopone i propri operai, documentate da reportage e inchieste (su Google esiste addirittura una voce apposita: “Shein denunce”) ne usciva malissimo: una narrazione che equiparava sostanzialmente il marchio al babau delle marachelle infantili: se compri Shein viene il babau e ti porta via, chi compra Shein non è figlio di Maria e in un certo senso non lo è per davvero perché un documentario diffuso lo scorso dicembre da Channel 4, condotto da un giornalista che si era intrufolato in alcune delle fabbriche del marchio dalle parti di Shenzhen, evidenziava orari di lavoro di diciotto ore per paghe da quattro centesimi a capo, che peraltro ben corrispondono a un prezzo finale di venti-venticinque euro incluso il tessuto zero sostenibile, la confezione, il trasporto, la commercializzazione e il solito ricarico che nel lusso è pari a dodici volte il costo di produzione e che a conti fatti potrebbe rientrare anche in questo caso.

  

Le mamme della romanella avrebbero potuto negare l’acquisto, direte voi, ma sapete come vanno le cose con questa generazione, incapace di rinunce. Dunque, ogni martedì le fanciulle procedevano con l’ordine, ogni venerdì l’abito a venti o trenta euro veniva consegnato e indossato con una borsa griffata per confondere le acque, e ogni lunedì si buttava, tanto che sono le discariche alte come montagne in Africa o nel sud est asiatico, volete che la situation peggiori proprio per colpa mia. Verso aprile, come per incanto, la percezione di Shein si è trasformata davvero in tutto il mondo nel babau peggiore, quello della scelta non solo scellerata, ma anche sfigata, e ora eccoci con Shein il marchio di moda che sarà pure valutato 66 miliardi di dollari ma che il mondo ama odiare, come ben dimostra anche la campagna social scatenata contro gli influencer che, di recente, l’ufficio marketing di Chris Xu ha invitato nelle proprie fabbriche e che sono stati travolti dagli insulti.

    

Odiare Shein è molto più facile che farlo con le europee H&M o Zara, di cui tutti possediamo capi in guardaroba e che si sono impegnate in iniziative di sostenibilità, benché il modello di business, condizioni di lavoro a parte, non sia poi così diverso da quello del brand cinese. Adesso, mentre dalla Borsa di New York giungono voci della presentazione in via confidenziale per un’offerta pubblica iniziale in vista di un debutto entro l’anno dopo un ultimo round di finanziamento da 2 miliardi di dollari che avrebbe coinvolto il fondo sovrano degli Emirati Mubadala, arriva la notizia che Temu, brand cinese di qualità inferiore e aggressività commerciale perfino superiore a quella di Shein, l’avrebbe citata per abuso di posizione dominante presso l’Antitrust americano. A suo dire, Chris Xu cercherebbe di costringere i propri fornitori a non lavorare con lei, “privando i consumatori” di una scelta a prezzo ancora più “vantaggioso”.

  

La notizia ha dell’incredibile per molti motivi, uno perfino positivo perché solo del buono può venire da un richiamo alle leggi sulla correttezza commerciale ed etica che fino a oggi non è stata la leva principale del business cinese nella moda. Uno però, vorremmo non ascoltarlo più, ed è quello della responsabilità esclusiva dei governi nel surriscaldamento e nell’inquinamento del pianeta. Se comprate magliette tessute e lavorate chissà come a un dollaro, sappiate che siete parte integrante del processo.

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