Shein, così il nuovo paradiso adolescenziale della moda a prezzi stracciati ha abolito l'elemento umano

Ginevra Leganza

Il principio è su per giù quello di Zara, H&M e cencivendoli vari: intercettare le tendenze, riprodurle nel minor tempo possibile e proporle al mercato. Ciò che smarca Shein dai pionieri della moda veloce è il fatto di essere più che veloce 

Chiunque sappia individuare in una teenager la fonte di tanti spunti, il filtro giusto per mettere in chiaro il presente, deve aver sentito parlare dell’applicazione cinese di nome Shein. Scorrendo sui social spesso viene fuori l’inserzione della piattaforma che propone vestiti di ogni sorta a prezzi da stralunare gli occhi. Accessori vari a 2 euro e 50, magliette sotto i 5, camicette sotto i 10, abitini sotto i 20… Costano ancor meno rispetto ai capi dei colossi fast fashion i cui negozi fisici per lungo tempo sono stati santuari plebei dei centri cittadini, affollatissimi nei fine settimana e adesso sempre meno bazzicati da chi si affaccia al mondo con lo smartphone in mano.

Shein è un’app messa in piedi nel 2008 da Chris Xu. Inizialmente si chiamava SheInside e si limitava allo shopping online. Più o meno come Asos o Ebay sinché, nel 2015, cambia nome (più breve, più facile, più musicale) e dà il via a una misteriosa autarchia produttiva che manda in visibilio le ragazze. Andando al sodo degli elementi davvero interessanti di Shein (fatturato 2020: 10 miliardi di dollari; due volte tanto quello del 2019; virus complice), c’è innanzitutto la sua eccezionale dromomania. Ovvero la sua corsa contro il tempo che solleciterebbe un erede del filosofo Paul Virilio. Il principio è su per giù quello di Zara, H&M e cencivendoli vari: intercettare le tendenze, riprodurle nel minor tempo possibile e proporle al mercato. Ciò che smarca Shein dai pionieri della moda veloce è il fatto di essere più che veloce grazie all’abbattimento dei tempi d’intercettazione dei gusti e della produzione di merce.

Inoltre l’intermediario del negozio fisico, già sbiadito nei santuari di cui sopra, dove il commesso non è chi di tessuti e fogge se ne intende ma semplice cassiere, viene definitivamente meno. L’elemento umano cui chiedere di toccare, provare, scontare il capo scompare, e sta all’acquirente – acquattato dietro uno schermo – la valutazione comparata degli oggetti e dei prezzi. Si capisce che viene via la vergogna della trattativa. E poi c’è l’elemento estetico che si assottiglia al solo senso della vista di una paccottiglia da microinfluencer. Non si tocca, non si prova, semplicemente si guarda un vestito di vita breve e però buono per una sexy-foto su Instagram. La piattaforma si regge da sé e su desideri di massa facili da esaudire. E tutto questo in assenza di casse di risonanza fisiche. Shein, tra le altre cose, non vende in Cina ma in oltre 200 paesi, trovando negli USA il mercato più florido e in Italia una risposta sollecita (fra le applicazioni deputate al commercio vestiario è seconda solo a Vinted).

Parlando con Beatrice, una liceale che su Shein ha comprato un paio di magliette presto sbiadite – tutte le amiche lo fanno e anche lei ha voluto provare – viene fuori che l’esca della piattaforma cinese ha il sapore della filosofia di Pascal. Il successo della paccottiglia prodotta in quattro e quattr’otto (si parla di collezioni realizzate in una settimana o addirittura in pochi giorni grazie ad algoritmi cacciatori di tendenze) consisterebbe in un vortice di divertissement che cattura chi lo prova. A comprare sono soprattutto ragazze che con la piattaforma compongono un guardaroba spiccio ma somigliante a quello di social-dive pacchiane. Ragazze prese in un divertissement, appunto, dove in apparenza più compri e sempre meno spendi; dove in realtà ti consegni a una bulimia di clic volti ad accalappiare cappotti presto infeltriti, lingerie che t’irrita solo guardarla, maglie effetto ciniglia, stracci vari che avvolgono in un gorgo di desideri miseri e mai sopiti.

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