il foglio della moda

Il lusso ha fatto pop

Da una parte tradizione e un minimo di rigore, dall'altra lo sfoggio cafone di chi mangia brioche o finge di. In mezzo, un settore che fatica a difendere il valore della manifattura dopo quarant'anni di puro marketing di marca che ha enfatizzato il ruolo della moda come strumento di potere

Fabiana Giacomotti

Lo scontro economico-culturale che sta infiammando la Francia si riflette perfino nelle diatribe fra i privilegiati che assistono, consigliano e non di rado acquistano gli abiti e gli accessori favolosi che il resto del mondo osserva sui social

Quel che sta succedendo nel mondo della moda di lusso si potrebbe riassumere nell’immagine della rapper Cardi B che l’altra mattina scuoteva il deretano a favore dei fotografi asserragliati in fondo alle scale del Petit Palais di Parigi dopo lo show di Schiaparelli. Rideva e si agitava in un abito di velluto nero di seta, bordato di ricami dorati, tagliato e cucito a mano che, diciamo, nessuno dei suoi follower potrebbe mai lontanamente permettersi e del quale tutti, tenderemmo a credere lei compresa altrimenti speriamo che l’avrebbe indossato con un minimo di rispetto, ignorano la passione, le ore di lavoro profuso, la competenza, la cultura necessarie, e di certo anche la situazione sociale nella quale il suo piccolo e volgarissimo show avveniva, e cioè un paese devastato, letteralmente e figurativamente, dallo scontro di classe. La morte non accidentale del giovane Nahel per mano del poliziotto che l’aveva fermato, al volante di un’auto privo di patente, ha portato a una settimana di scontri, ruberie e devastazioni di cui il ragazzino di origine nord-africana scomparso tragicamente è sempre meno un simbolo e sempre più la scusa, il mezzo, il detonatore di una situazione di disagio, di un processo mancato di integrazione, di una rabbia dei quali i simboli della moda e del lusso, sfoggiati continuamente sui social – certamente di più dei libri di cui pure abbiamo visto i roghi, perché quando c’è rabbia sociale “i professori” e le loro insegne sono i primi ad andarci di mezzo – non sono esenti da colpe.

 

Nel miliardo di euro di danni causati in una settimana di scorrerie, con le banlieues a fuoco, una parte non irrilevante riguarda non a caso negozi di scarpe sportive e di abbigliamento, esattamente come duecentocinquant’anni fa le tricoteuses aspettavano avidamente di veder cadere la testa delle aristocratiche per impossessarsi dei loro vestiti e soprattutto delle loro parrucche, segno di un potere al quale non avevano mai avuto accesso di cui ambivano a sfoggiare, finalmente, i feticci. Che migliaia di ragazzi – la media delle migliaia di fermati di questi giorni ha meno di vent’anni, una quota significativa è attorno ai quindici - vogliano anche le brioche, che oltre al pane reclamino anche le rose che vedono ogni minuto sfoggiare su Instagram, in televisione, per strada, è evidente e dovrebbe esserlo ancora di più a chi, come la rapper nata nel Bronx, da quella ghettizzazione è sfuggita e che invece oggi si gode il proprio successo bling bling e, anzi, guida la pattuglia di “arrivati” che assistono alle sfilate fra una sfilza di “amazing” lanciati come se piovesse e di aggettivazione su una “good quality” che faticano a riconoscere, perché la moda non è marchio, ma cultura, e per troppi anni le multinazionali hanno voluto dimenticarsene.

 

Ha ragione Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior che ha firmato una delle collezioni couture più belle e sofisticate degli ultimi anni, quando risponde a noi che le domandavamo come si sentisse nel proporre abiti da centomila euro in un clima simile, che il messaggio arrivato al vasto pubblico in questi decenni (diciamo pure secoli) ha enfatizzato della moda l’espressione di potere, di esclusività e di status rispetto alla cultura della manualità, della creatività sofisticata, della sapienza, della tradizione.

 

 

Questi erano parte del patrimonio di chi un tempo accedeva alla couture e si rivolgeva all’esperienza dei tecnici e degli specialisti che oggi si iscrivono “anche più di mille all’anno” ai concorsi guidati da Antonio Franceschini, head of international markets di CNA, e nulla o ben poco spartivano con chi oggi ambisce semplicemente al photocall per sfoggiare la borsetta e l’abito nuovo, meglio ancora se preso in prestito perché anche questo è diventato segno di status e di potere.

 

Niente era più incongruo delle tante sfilate organizzate in queste settimane sui ponti più belli di Parigi, presi a simbolo di pace, e unione, e di inclusività e di tutte quelle cose belle che si racconta e ci racconta la moda (il Pont Neuf per Louis Vuitton homme, le passage Senghor per Alaia, il bordo della Senna per Chanel) quando è evidente che il mondo stia dividendosi anche nella propensione e nella disponibilità all’acquisto, come è emerso peraltro poche ore fa dalla presentazione a Milano dell’Altagamma consumer and retail insight, realizzato dalla fondazione che riunisce le imprese nazionali del lusso e da BCG: venti milioni di consumatori alto-spendenti, molti concentrati in Cina e nella fascia del Golfo, ormai protagonista a Parigi non solo come cliente, dove affolla i salottini di prova di Antonio Grimaldi, ma come creatrice, vedi la selezione di stilisti dell’Arabia Saudita che si è presentata a place Vendome. Questa fascia di clienti intende dichiaratamente destinare fino al 40 per cento in più per beni di lusso ed “esperienze che il denaro non può comprare” (sentita l’altro giorno a un cocktail), rispetto a un’Europa immersa nei propri drammi sociali che invece prevede di spendere specularmente di meno (-40 per cento di propensione all’acquisto di beni “true luxury”).

 

Insomma, è arrivato il momento di fare una serie di riflessioni, e anche con una certa urgenza, perché è chiaro che la solita teoria pelosa sulla “necessità” dei poveri di produrre beni di lusso per i ricchi che così redistribuiranno il proprio denaro, già praticata dal beato Antonio Rosmini circa duecento anni fa e sempre agitata da tutti noi della stampa quando vogliamo trovare una ragion d’essere a questo settore, inizia a mostrare la corda. La stessa narrativa della moda come mezzo di inclusione sociale è un po’ sfuggita di mano, e inizia a suonare provocatoria e sfacciata come il borsone Vuitton di Pharrell Williams in coccodrillo giallo con la catenona d’oro o la sacca Gucci di Jannick Sinner che non è neanche particolarmente cara o esclusiva (nella storia abbiamo visto tennisti che le linee di moda se le creavano senza limitarsi a farsi regalare accessori, Sergio Tacchini fra tutti e molti anni prima Suzanne Lenglen che si faceva disegnare le celebri gonne a pieghe da Patou), ma che insolente diventa nel momento in cui travalica le regole di un torneo internazionale e richiede un permesso speciale. Siamo onesti: sebbene nessuno di questi giovanissimi abbia mai sentito parlare di Marcuse, anzi fosse per loro tutti i libri andrebbero bruciati e dal cielo dovrebbero piovere solo gli ultimi modelli di Nike, nel giro di tre giorni sono riusciti a mettere in partica quello che l’intellettuale simbolo del Sessantotto preconizzava con la sua critica al pensiero positivo e la denuncia dell’autoritarismo nascosto nel progressismo democratico.

 

Quanto era grande, quello che il capitalismo rigettava? Quanto vaste le masse degli esclusi, dei marginali, dei “non promossi” dalla democrazia industriale che, essendo i soli a non aver nulla da perdere, avrebbero messo in crisi non solo quel modello, ma anche quello opposto di tutte le “magnifiche sorti e progressive”?

  

Un esempio di questo nuovo nichilismo si è avuto in questi giorni, e per questo suonano doppiamente offensivi, almeno agli occhi di chi, come noi, è nato, cresciuto e si è acculturato almeno un po’ in Europa, gli sfoggi, gli sberleffi, i twerk dei nuovi potenti e il processo di emulazione apparentemente facile che questi suggeriscono da Instagram e da Tik Tok, esattamente come all’opposto, ci paiono attuali e importanti – perché sì, il lavoro va difeso, la bellezza va difesa, la cultura tutelata e mostrata e resa evidente nel suo valore soprattutto ai ragazzi che protestano – i processi che stanno portando proprio creativi europei, e italiani, come Giorgio Armani che persegue la propria ostinata idea di bellezza assoluta, questa volta declinata e modellata in una cascata di rose rosse in tessuto goffrato, in pelle laccata, in seta spalmata a sembrare oro liquido su abiti al tempo stesso sontuosi e delicati, Chiuri e Pierpaolo Piccioli di Valentino, a cercare entrambi ossessivamente, ciascuno con un proprio percorso che un tempo fu lo stesso, l’essenza della couture, della bellezza del corpo nelle sue infinite varietà, della poesia di un taglio, di un gesto, di una costruzione che deve sembrare naturale, e lieve, che anzi non deve sembrare proprio.

 

Mentre Chiuri continua a lavorare al recupero di tecniche antiche come per esempio, per questa collezione inverno 2023-2024, il “ricamo sfilato” che si ottiene togliendo il filo dalla trama e l’ordito del tessuto, o il “bigoudène” che permette di creare superfici tridimensionali, Piccioli torna ed esplorare il campo che gli è proprio del sociale, della dimensione personale e collettiva dell’umano, e sceglie di sfilare non dentro ma fuori dal castello di Chantilly, “metafora dei preconcetti riguardo alla haute couture” e lo fa con abiti di straordinaria semplicità, ridotti all’essenziale, pur nella preziosità dei tessuti. Tagli minimi, espressioni sofisticate di make believe, come nel paio di jeans modello Levi’s che però non sono denim, ma milioni di perline, in “ottanta sfumature di blu”, che imitano il capo ufficialmente più ubiquitario e accessibile del mondo e no, non è provocazione, ma ricerca di maestria e di “eccezionalità nel quotidiano” in cui le t shirt si trasformano in abiti di gala e il jeans vintage Levi’s 502 XX big E, un errore di produzione del 1966 e rarissimo oggetto di collezione, in capo upcycled.

 

Anche se a Parigi sfilano l’eccentricità di molti, e in particolare di Thom Browne con le sue “donne campana” e i suoi cappotti emuli delle forme a piccione Fin de siècle, e Daniel Roseberry che, emulo vero di Schiaparelli, vede aumentare di giorno in giorno le fan della sua estetica forte e decisa, è questo il genere di ricerca che per noi, cresciuti con Marcuse, e con la dottrina di una Francia erede di un Illuminismo andato perduto e dimenticato, in cui il presidente Emmanuel Macron si rassegna a un auto-da-fé per evitare il peggio e promette “ricerche approfondite” per capire le “ragioni profonde” di quanto accaduto quando la realtà delle banlieues è lì da vedere perfino passandoci a lato sulla sopraelevata da Orly, dà ancora senso alla couture, questo sistema per milionari capaci di riservare tempo e denaro alla bellezza assoluta.

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