in loop per tutto l'anno

La repubblica di Sanremo. Un Festival che non finisce mai: è il palco del Partito della nazione

Andrea Minuz

L'edizione più lunga di sempre. Da Zelensky ai contratti in bilico di Amadeus e Fuortes, fino ai motivetti delle canzoni che si confondono con i luoghi comuni e con le "narrazioni". La città dei fiori produce un micidiale cortocircuito tra cazzeggio e agenda politica che tiene sotto scacco il paese


Insomma non si esce vivi da questo Sanremo bisestile, il più lungo di sempre. Tra il minuetto per un cameo di Zelensky, l’anal plug di Rosa Chemical, il contratto di Amadeus e Fuortes in bilico, sono tre settimane piene di Festival, e a occhio non finisce qui. E’ Sanremo nell’epoca di RaiPlay, in loop per tutto l’anno, fino al prossimo Festival. Finita la gara, i motivetti delle canzoni si affastellano con la solfa delle polemiche, la “bufera sulla Rai”, i luoghi comuni delle dichiarazioni politiche. Si piantano in testa, diventano un chiodo fisso, un mash-up con le rime di Colapesce e Dimartino, “preferisco il rumore delle metro affollate” a questo Sanremo “palco di indottrinamento gender fluid”. Un Sanremo anarchico e comunista, signora mia. Un Sanremo megafono della “propaganda mainstream”, ostaggio della “narrazione unica”, “senza contraddittorio”. Un Sanremo che “offende gli italiani” e “violenta i valori della stragrande maggioranza degli elettori”, i quali elettori, evidentemente, avevano votato per un Sanremo diverso e ora si sentono traditi: “pronti” a governare l’Italia ma non a gestire il Festival. Basterebbe però sfogliare qualche rotocalco per ridimensionare subito tutta questa fluidificazione nichilista: Mengoni dedica la vittoria alla mamma, Elodie in “dolce attesa”, Chiara Ferragni “su tutte le furie”: pensati libera sì, cornuta no.

 

Se proprio tocca piegarsi alla barbarie lessicale delle “narrazioni”, Sanremo è comunista quanto l’Università italiana è competitiva

 

Se proprio tocca piegarsi alla barbarie lessicale delle “narrazioni”, Sanremo è comunista quanto l’Università italiana è competitiva (tralasciando quanto poco fossero fluidi i comunisti italiani e quanto “inclusiva” sia un’Università dove lo spettro del “numero chiuso” sa già di fascismo). Sembra anche impossibile immaginare l’esistenza di elettori che si rifugiano a destra spaventati più dalla patrimoniale e dall’Imu che dalle slinguazzate tra Fedez e Rosa Chemical (e che magari trovano solo orripilante la sua hit, “Made in Italy”, versione fluida di “C’è da spostare una macchina” di Francesco Salvi, che s’intitolava in realtà “Esatto”, ma tutti se la ricordano così). Nella sua onirica e ossessionale rappresentazione di questi giorni, l’elettore progressista ritrova la speranza nelle magnifiche sorti e progressive di Sanremo, quello conservatore teme più d’ogni altra cosa il tracollo omoerotico dell’Italia, non vuole il monologo di Paola Egonu, s’indigna per il boicottaggio di Ultimo, sbeffeggiato dai soliti “giornalisti radical chic”, quelli che vanno in estasi per Mahmood. Regazzetto de borgata, nato ai bordi di periferia, Ultimo diventa nel frattempo parametro del dramma della sinistra secondo Goffredo Bettini: “Perché non ce lo siamo mai filati? Perché lo regaliamo alla destra? Negli anni Settanta come Federazione dei giovani comunisti andavamo a cercare Barbarossa, Ramazzotti, Venditti cercando di coinvolgerli” (il che dà un’idea precisa dell’ultima volta che Bettini è andato a farsi un giro in periferia, scomodissima del resto da raggiungere dalla Thailandia). Se Ultimo è un figlio di Pasolini ma lui non lo sa, se ora se lo coccolano la destra o la Lega, è solo colpa nostra, cioè va da sé di Renzi. Già pronto il nuovo libro di Bettini: “A Sanremo. Da capo”.

 

Bettini che “non regaliamo Ultimo alla destra”, è un figlio di Pasolini ma lui non lo sa ed è solo colpa nostra, cioè va da sé di Renzi

 

Forse la cosa più di sinistra del Festival, in linea con quel problemino lì del Pd, erano tutti quei premi ai maschi e tutti quei monologhi alle femmine (una critica che la destra melonomane poteva anche cavalcare, invece di accanirsi sul gender fluid e le canne). Sanremo è invece “specchio del paese” in purezza per i suoi meccanismi di voto contorti, che cambiano in continuazione, con le fasi distinte, il ballottaggio, il televoto, l’accrocco tra giornalisti, telespettatori, giuria demoscopica. “Fuori la politica da Sanremo” è però un mantra davvero surreale, come “fuori i partiti dalla Rai”, in un paese dove la politica spadroneggia ovunque, come istinto primario e pulsione di tutto il know-how italiano.

 

E poi c’è “il messaggio”. Quello delle canzoni. Quello dei monologhi. Quello di Sanremo. Alla mamma a casa o ai giovani iraniani di Teheran, dal palco di Sanremo si manda sempre un messaggio. E il messaggio cambia con dissolvenze imprevedibili, dalla famiglia di Catanzaro con sedici figli, “per merito dello Spirito Santo” (Sanremo 2015) al monologo di Chiara Francini che dondola una carrozzina vuota. Nel 2005, il Secolo d’Italia elogiava un Sanremo finalmente non di sinistra, parlando di svolta epocale: “Finito per sempre il monopolio dei Paoli e dei Barbarossa”, con Marcella Bella che usciva allo scoperto (“io sempre discriminata”), e Dj Francesco nuova icona del pantheon della destra. Appena tre anni dopo, ecco la denuncia di Libero: “12 canzoni su 34 hanno testi schierati a sinistra!”. Baudo rispondeva, “non ci sono canzoni di destra o di sinistra, i temi sociali interessano l’intera società italiana”, figurarsi. Sanremo sanremizza tutto. E proprio l’affaire Zelensky è un caso da manuale. L’Ucraina può entrare al Festival, certo che sì, però meglio se come tango di Tananai, dedicato a Olga e Maxim, con una rosa gialla e una blu, che fa anche un po’ Zarrillo, col tuo coraggio, la tua risorsa in più. Per le foibe, invece, mancando Simone Cristicchi, si opta per una letterina di Amadeus, seduto in platea, vicino ai tappezzieri di Poltrone & Sofà (chissà quanto avranno speso per quei siparietti tremendi, a confronto il set di pentole del peggior Mastrota sembrava un prodotto della Bbc).

 

Si evoca spesso l’oscuro e potentissimo “partito della Rai”, granitico, inscalfibile, più forte di qualsiasi cambio di governo e Cda. Ma il vero partito è quello di Sanremo. Un partito dal 66 per cento, fresco dell’investitura di Mattarella. L’ultimo partito rimasto. Ogni anno la copertina di “Tv, Sorrisi e Canzoni” con tutti i partecipanti del Festival è la versione sanremese della foto dei ministri dopo il giuramento al Quirinale. Sanremo come unica grande Chiesa con dentro prima, seconda, terza Repubblica e anche tutte quelle dopo. Tutti corrono a rendere omaggio a Sanremo. S’inginocchiano all’altare dell’Ariston, come alle processioni di paese. L’ambizione massima non è occupare la Rai, ma occupare Sanremo, diventare parte della sua liturgia. Per capire il Festival, come ha scritto Aldo Grasso, bisogna guardare le prime file dell’Ariston. Da qualche anno, la regia indugia con delle ampie carrellate su parenti, amici, figli, dirigenti che cantano, si sbracciano, fanno la ola, come in una versione aziendale delle vecchie piazze del Karaoke di Fiorello. “Tra quei volti si gioca il destino del paese”. E’ il tributo alla nomenklatura. Con le gerarchie riprodotte nella geografia dei posti in platea, una rappresentazione plastica delle carriere in Rai, chi sale, chi scende (si intuisce così l’ascesa di Serena Bortone, da un paio d’anni sempre in prima fila, l’irresistibile scalata di Matano, un possibile rilancio di Paola Perego o Simona Ventura, la grandeur di Mara Venier, che sgomita e sghignazza con Stefano Coletta, e poi naturalmente il picco di visibilità annuale per Giovanna Civitillo, moglie di Amadeus). Col gender o con la famiglia tradizionale Sanremo celebra il potere di Sanremo. Persino i Ferragnez ne escono malconci, Instagram li ha uniti, Sanremo li divide.

Da qualche anno, la regia indugia con ampie carrellate sulle prime file del pubblico. “Tra quei volti si gioca il destino del paese"

Prima di diventare agli occhi della destra una specie di Woodstock col canone, Sanremo era l’emblema del conservatorismo e della tradizione. Il teatro di un piccolo mondo antico di piccinerie e suppellettili, mamme, fiori, papaveri e papere. Una cosa da cui tenersi alla larga. Negli anni Settanta lo si criticava soprattutto da sinistra. I giovani comunisti-leninisti-maoisti-lottacontinuisti odiavano naturalmente il Festival. Vecchio, provinciale, simbolo del potere democristiano, epitome dello squallore piccolo-borghese. In quota comunista c’era solo Claudio Villa. Ma era, appunto, Claudio Villa. Oppure c’era Celentano che osava dare le spalle al pubblico. Ma Sanremo era per lo più snobbato dai cantanti, perculato dai critici, fuori dall’orbita dell’industria musicale. La musica era altrove. La formula era sorpassata. L’idea di “competizione musicale” andava respinta come cosa violenta e reazionaria (una “narrazione tossica”, avremmo detto oggi). Si poteva casomai immaginare un “Sanremo autogestito”, come in “Prova d’orchestra” di Fellini: i musicisti si mettono in sciopero, cacciano il direttore, proclamano l’anarchia, provano a farsi dirigere da un metronomo. Persino la Rai tentò di mollare Sanremo. Nel ’73 prese a trasmettere controvoglia solo la finale. Un po’ per austerity, un po’ per la tetraggine cattocomunista di Viale Mazzini. Bisognava “porre un limite al fenomeno della proliferazione di festival di canzoni, il più delle volte di infimo valore culturale e sociale” (così il “Comitato centrale di vigilanza sulle radiodiffusioni”). Furono gli anni più bui. La notte della Repubblica di Sanremo. Si pensò anche di cedere i diritti di trasmissione, forse a un giovane Berlusconi, forse a un’emittente straniera, magari a un network americano. Un gigantesco “sliding doors” del paese: chissà cosa saremmo diventati con un Sanremo in diretta dal Caesars Palace di Las Vegas, coi monologhi di Dean Martin e Sammy Davis Junior e i picciotti americani in prima fila, come in “Casinò” di Scorsese.

 

Sanremo, così come lo conosciamo oggi, nasce negli anni Ottanta e c’entra sempre un bacio. Il Sanremo ’80 è quello di Claudio Cecchetto, Roberto Benigni e Olimpia Carlisi, attrice del teatro off, icona dell’avanguardia, reduce del “Casanova” di Fellini e da un film con Straub e Huillet, non proprio un’acchiappa-pubblico. Benigni non era il profeta della Costituzione, ma quello di “Televacca” e del “corpo sciolto”. Se Cecchetto era stato chiamato per provare a riprendere i giovani, a Benigni toccava il compito di buttarla in caciara. E così fece. Fu la prima slinguazzata sanremese, mezzo minuto di bacio con Olimpia Carlisi, incorniciato nel celebre “Wojtylaccio”, con dibattito parlamentare a seguire (volendo lo si può ascoltare negli archivi di Radio Radicale online, vale la pena). L’Osservatore romano denunciava un “piano strategico per contenere il recupero dei valori cristiani dovuto all’innegabile successo di Giovanni Paolo II”. Grande imbarazzo dei dirigenti Rai e di molti parlamentari democristiani. Ma fu soprattutto il bacio a scatenare i giornali. Con quell’edizione Sanremo smise di essere solo una gara canora o un rito musicale per diventare uno show pensato e progettato in funzione della tv, dove il gossip, la polemica, l’uscita scomposta, la provocazione diventavano il centro dello spettacolo.

 

E nello spettacolo c’era spazio per tutti. Anche per gli operai dell’Italsider in visita a Sanremo ’84, per una concertazione tra le parti sociali gestita in diretta da Pippo Baudo, aggirando i sindacati, come in una reprise sanremese della “marcia dei quarantamila”. Sanremo in quegli anni torna al centro della scena pubblica. Funziona. Poi però alla fine degli anni zero sembra di nuovo arenarsi, stavolta sotto i colpi di talent e reality. La nuova tv oscura Sanremo. Difficile per uno show così vecchio e ingessato competere col ritmo di “X-Factor”. Complicato sedurre il pubblico giovane di “Amici”. Dopo il Sanremo sfavillante e in playback degli anni Ottanta, dopo il rilancio degli anni Novanta, Sanremo torna a essere una roba da vecchi, superato dai nuovi format. L’edizione del 2008, la tredicesima dell’èra Baudo, cola a picco: 35 per cento di share. Meno dei “Cesaroni”. Si punta allora su Bonolis, ma non basta. Ci vuole un’idea, e l’unica idea possibile è: se non puoi batterli fatteli “Amici”. Si butta dentro un’infornata di figli di Maria De Filippi e nuovi idoli appena usciti da “X-Factor” e il gioco è fatto.

 

Il nuovo Festival: Sanremo più “Amici” più “X-Factor”. Una Grosse Koalition capace di tenere dentro tutto e tutti

 

I talent si mangiano il Festival ma portano un nuovo pubblico, che su Rai 1 non ci finisce mai, neanche per sbaglio. La finale in co-conduzione con Maria De Filippi è la firma ufficiale dei patti sanremesi. Il compromesso storico che fa rinascere il nuovo Festival, evento mediatico pigliatutto: Sanremo più “Amici” più “X-Factor”.  Una Grosse Koalition capace da lì in poi di tenere dentro tutto e tutti, vecchi, giovani, giovanissimi, Al Bano e Ultimo, Gino Paoli e Rosa Chemical, la Costituzione più bella del mondo e la reginetta di Instagram. Il resto l’hanno fatto i social. Amplificatori delle polemiche da Festival, tra video rubati nel backstage, letture di labiali, meme, hashtag, battute a raffica. L’incontro tra i social e Sanremo produce un micidiale cortocircuito tra cazzeggio e agenda politica che tiene sotto scacco il paese per una settimana almeno. Poi passa. Finché, come il panico che assale alla vista dei primi panettoni negli scaffali dei supermercati già a fine ottobre, sui giornali non si inizia a parlare del “prossimo conduttore del Festival” (spoiler: Pino Insegno)

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