Il “Sanremo blues”: è il giorno più triste dell'anno. Per fortuna abbiamo le polemiche

Andrea Minuz

Non importa che lo abbiate seguito o meno. Il Festival detta l’agenda del paese, poi all'improvviso più niente. Il lunedì dopo la finale è tremendo anche perché lì fuori c’è pure un’agenda pressante che avevamo lasciato in sospeso. 

La chat è moribonda. Il gruppo d’ascolto dileguato. I meme iniziano a svanire dalle nostre timeline. Le battute sulle canzoni e gli outfit dei cantanti non fanno più ridere, e tutto appare lontano, sbiadito. Facciamo fatica a concentrarci: è il “Sanremo blues”. La micidiale depressione post Festival. Non importa che lo abbiate seguito o meno. Non importa se avete cantato, vi siete indignati o siete rimasti calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore. Il Festival non è una cosa che si guarda o non si guarda. Con voi o senza di voi, Sanremo detta l’agenda del paese. Per una settimana ci siamo sentiti parte di un tutto. Una cosa sola, un corpo e un’anima, una nazione che vibra per te e per me. Poi all’improvviso più niente, come a solito, come sempre. Si torna alla routine televisiva, all’ennesima serie Netflix che non finiremo mai, di nuovo soli, inferociti, ognuno perso dentro i fatti suoi.

 

Il lunedì dopo Sanremo è un lunedì tremendo anche perché lì fuori c’è pure un’agenda pressante che avevamo lasciato in sospeso: un terremoto apocalittico, l’Ucraina, il 41-bis, forse gli alieni (che hanno avuto il buon gusto di aspettare la finale di Sanremo, prima di finire in prima pagina sul New York Times) . Ma la verità è che siamo ancora con la testa all’Ariston. Perché durante la settimana del Festival il tempo si dilata. Scorre a due velocità: una per noi, l’altra per il resto del mondo. Se Berlusconi avesse detto quello che ha detto su Zelensky che so, venerdì o sabato, non se ne sarebbe accorto nessuno.

 

Per fortuna abbiamo le polemiche, gli strascichi, gli attacchi politici, i video dei backstage che “proverebbero che”. Questa delle polemiche, di “Sanremo caso politico”, è una funzione catartica fondamentale in un paese incapace di staccarsi dal Festival così, di getto. Ecco l’indispensabile giostra di dichiarazioni, spiegazioni, precisazioni, con le cariche a rischio, Fuortes, Coletta, tutto il cda di viale Mazzini. Ci va bene qualsiasi cosa: anche Galimberti che analizza il bacio Fedez-Rosa Chemical spiegando che la “fluidità è dentro di noi”, anche un labiale dei Cugini di campagna che sfottono Blanco, anche un’analisi del contratto di Amadeus, clausola per clausola. Tutto, purché questa cosa continui un altro po’.

 

Il “Sanremo blues” inizia la domenica mattina. Il day after. Nelle chat su WhatsApp diamo fondo alle ultime battute su vinti e vincitori, ma sappiamo che è finita. La domenica è ancora un giorno cuscinetto. Abbiamo lo spleen, certo, ma c’è un ultimo giro di giostra. I cantanti sono stanchi, insonnoliti, con le occhiaie, ma devono andare da Mara Venier. “Domenica In” è il bicchiere della staffa di Sanremo. E’ tardi, abbiamo dato, ma non vogliamo separarci, non vogliamo tornare a casa. Ancora, ancora. Poi arriva la domenica sera. E qui si mette male. Il Festival inizia a essere inghiottito in uno strano buco spazio-temporale. Non ci appartiene più, non vogliamo saperne, ma non riusciamo a mollarlo. Lo teniamo in vita con una settimana di polemiche per tappare l’horror vacui. Gli americani hanno il Superbowl, che però dura un giorno. Il nostro Superbowl non poteva che durare una settimana più strascichi. Il “Blue Monday”, celebrato ogni anno come il “giorno più triste degli abitanti dell’emisfero boreale”, solitamente il terzo lunedì di gennaio, andrebbe ricalendarizzato al lunedì dopo Sanremo. Forse nessuno lo ha ancora proposto, ma questa è una battaglia da fare per il bene del paese. Tanto siamo lì: fine gennaio, primi di febbraio, che differenza fa.

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